Sabato nove settembre 2023, a Cortona, nella Sala del Consiglio Comunale, su iniziativa della Fondazione Nicodemo Settembrini, gli storici Ivo Biagianti e Mario Parigi hanno rievocato l'otto settembre 1943.
Con due conferenze di taglio accademico, ma con registro espositivo accessibile a tutti, i due noti e stimati storici aretini hanno intrattenuto per quasi due ore un numeroso pubblico accorso per ascoltare la loro ricostruzione di una delle più buie pagine della storia italiana del Novecento: la pagina dell'armistizio ambiguo di Cassibile, coniugato con l'allegato della resa incondizionata agli anglo-americani ,scritta su fogli separati e secretati dal generale Eisenhower come schiaffo politico alla monarchia, al governo Badoglio, ad una classe politica allo sbando collusa con il nazifascismo e ad uno Stato Maggiore dell'esercito inetto e impaurito, che in quella giornata di ottant'anni fa, con la fuga da Roma, abbandonarono alla tragedia dell'occupazione nazista il popolo italiano, pensando solo alla loro salvezza personale e dei propri beni accumulati nel ventennio fascista.
Biagianti e Parigi hanno raccontato e illustrato la loro interessante narrazione storica con documenti e riflessioni che ci auguriamo possano diventare presto un testo da distribuire ai giovani studenti cortonesi di quest'oggi. Un oggi troppo spesso senza memoria storica e tutto ripiegato su un presente povero di quegli ideali, valori di cultura umanitaria, sociale, civile, umanistica e cristiana che allora , attraverso la guerra di resistenza, misero in piedi quel nuovo risorgimento italiano, che portò alla fondazione e costruzione della nostra Repubblica democratica.
In particolare, Ivo Biagianti ha illustrato la tragica vicenda dell'armistizio nel contesto nazionale e internazionale di allora, mentre Mario Parigi si è soffermato su sei storytelling di soldati cortonesi che vissero quelle terribili giornate ( Renato Gneruci, marinaio; Renato Mariotti, marinaio; Mario Romanello, tenente Genio; Oliviero Luconi, cavaliere; Alvaro Giusti, paracadutista della Nembo; Alessandro Bezzi, tenente di Fanteria), chi sopravvivendo, chi perdendo la vita.
Per comprendere meglio cosa successe, per esempio ai soldati italiani in quell'otto settembre 1943 del " tutti a casa", aggiungo a quelle di Mario Parigi una settima storytelling attraverso una testimonianza ( recuperata sul web) di un giovane ventenne cortonese , che in quei giorni era alpino dell'esercito italiano in zona di occupazione sul fronte francese. Precisamente era a presidiare, con gli alleati tedeschi, il confine sulle prealpi marittime francesi sopra Nizza, sui monti Macaron e Ferion di Contes. Racconta quel giovanissimo soldato cortonese (che era conduttore di muli sulla caserma posta sulla sommità del monte Ferion) : " alla sera dell'otto settembre 1943, verso buio, il nostro capitano ci chiamò tutti in adunata nel cortile della caserma e, con le lacrime agli occhi ci disse che il Re era scappato da Roma, che l'Italia si era arresa agli anglo-americani e che a lui i superiori non avevano dato nessun ordine su cosa fare e come organizzarsi, all'infuori di dire ai propri soldati che l'esercito italiano era stato costretto alla resa e chi poteva doveva mettersi in salvo, sciogliendo la compagnia , anche rischiando di mandare allo sbando i propri soldati. Ci disse esattamente così: " Siamo al si salvi chi può. Per noi la guerra è finita e , siccome non possiamo arrenderci agli inglesi o agli americani perché lontani. Noi ora siamo in terra di occupazione assieme ai tedeschi, che ora diventano nostri nemici, i tedeschi tra poco saliranno fin quassù alla nostra caserma e chi non si arruolerà con loro sarà fatto prigioniero e inviato in Germania. Io allora vi dico: prendete le vostre cose personali e entro un'ora fuggite senza le armi e ognuno cerchi di salvarsi e di tornare alle proprie case' ".
"Io, racconta ancora il ventenne cortonose, sapevo che giù in paese a Contes, c'erano alcune famiglie di immigratiti cortonesi che erano andati a vivere lì negli anni 1930 ed in particolare ne conoscevo uno che ,avendo più di quarant'anni, aveva continuato a vivere e lavorare in paese con la sua moglie e i suoi figli. Presi il mio zaino con le poche cose personali che avevo e scappai scendendo, attraverso alcuni viottoli, in mezzo ai boschi, al paese di Contes alla casa di questi compaesani, dove arrivai verso le tre di notte, dopo aver evitato una pattuglia di tedeschi, che presidiva l'acceso alle strade di questa cittadina francese.
Bussai alla finestra della loro camera da letto e , dopo essermi fatto riconoscere, chiesi loro di essere ospitato e aiutato a salvarmi dai tedeschi. Il capofamiglia , che era amico del mio babbo , mi apri la finestra e mi nascose in cantina portandomi abiti borghesi del figlio e gettando sul focolare a bruciare i miei abiti militari. Mi diede una fetta di pane con del formaggio, un bicchiere di vino e mi disse di non uscire dalla cantina fino a che lui non fosse venuto a riprendermi. Venne a riprendermi la sera dopo appena tornato dal lavoro; mi fece salire in cucina per cenare con loro e mi disse che il paese era pieno di tedeschi che cercavano soldati italiani sbandati.
Dopo la modesta cena fatta al lume di candela, perché la luce elettrica allora non c'era, mi riportò in cantina dandomi due coperte e dicendomi di dormire sopra un tavolaccio di legno e raccomandandomi che dormissi subito, perché l'indomani mattina alle quattro mi avrebbe portato in un bosco sopra Contes, dove potevo stare nascosto di giorno e vedere cosa sucecdeva in paese . E, soprattutto , se i tedeschi salivano verso quel bosco io sarei dovuto scappare più in alto per nascondermi meglio. Alla sera a buio potevo ritornare, stando attento a non farmi vedere dai tedeschi, alla sua casa per cenare e dormire in cantina.
Vissi così, aiutato da loro, per circa diciotto giorni. Al diciannovesimo giorno questo cortonese mi portò fuori del paese su di un altro bosco dove mi presentò ad un altro cortonese che viveva fuori Contes e che faceva il contrabbandiere di profumi tra Francia ed Italia con viaggi a cadenza mensile. Questo contrabbandiere aveva con sé un altro soldato italiano sbandato e tutti e tre assieme alla sera ,sul far del buio, ci incamminammo sui viottoli della montagna sopra Taggia per attraversare la frontiera di nascosto e proseguire poi a piedi verso Imperia. Tutto andò per il meglio e fatti i circa quaranta km tra Mentone e Taggia ci trovammo verso le tre di notte nelle campagne di Imperia, dove, ci disse il nostro amico contrabbandiere, che di solito le case contadine erano abbastanza disponibili a fare dormire nelle loro stalle, fino all'alba , i contrabbandieri o i passanti notturni.
Mentre camminavamo in mezzo ai campi in una stradina sterrata di campagna, vedemmo una casa con una luce di candela accesa in una stanza al primo piano. Contenti e felici che potevamo riposarci qualche ora nella paglia di una stalla, bussammo alla porta e chiedemmo se ci potevano far dormire due ore per riposarci nella stalla. L'uomo che aveva risposto e , dopo aver spento la candela , si era affaciato alla finestra, ci chiese chi eravamo ed io stupidamente, credendo di essere tra contadini italiani patrioti dissi che eravamo tre soldati sbandati e che volevamo tornare alle nostre case.
La voce in finestra ci rispose di non muoverci che sarebbe sceso ad aprirci la stalla. Appena cinque minuti dopo ci trovammo tre fucili puntati alle spalle e l'ordine di mettere le mani sopra la testa e di voltarci. Vedemmo, con grande sconforto e paura , che eravamo stati presi da tre italiani della milizia fascista. Ci spinsero all'interno dicendoci che quella casa era una caserma di una piccola compagnia della milizia fascista incaricata di presidiare quella zona di campagna.
Fummo buttati dentro una stanza sudicia,piena di tavolacci e che fungeva da prigione provvisoria. Restammo chiusi lì dentro con l'ordine di aspettare le decisioni che avrebbe preso il maresciallo dei militi , che sarebbe arrivato la mattina dopo verso le dieci.
Alle dieci infatti arrivò questo maresciallo che ci fece condurre, sempre con un fucile puntato alle spalle, nel suo ufficio. Lì ci interrogò e ci chiese chi eravamo e da dove scappavamo. Il nostro amico contrabbandiere disse che faceva commercio di profumi e che rivoleva la sua valigetta piena di profumi francesi; io e l'altro soldato sbandato dicemmo che il comandante ci aveva detto di andare a casa cercando di non farci prendere dai tedeschi.
Il maresciallo controllò la valigetta del nostro amico e gli disse che quella la teneva lui e che se ne poteva tornare in Francia, ma ammonendolo: ' acqua in bocca, noi non ci siamo mai visti e voi andate pure a casa vostra, ma mi pormettete che arrivati a casa vi presenterete al vostro distretto militare per essere riammessi a servire l'esercito fascista? Naturalmente senza dire che ci siamo visti e che siete stati fermati per un controllo dai miei militi'". Io e l'altro soldato dicemmo di si e il marescallo ci fece uscire dalla sua caserma assieme al nostro amico contrabbandiere. Fatto un km circa da quella caserma e visto che nessuno ci seguiva, capimmo che l'avevamo scampata bella e il nostro amico contrabbandiere bestemmiando contro la sfortuna per la perdita della preziosa valigetta di profumi, riprese la via della Francia e noi due la direzione per Imperia , Savona, Genova e Pisa dove il mio compagno di sventura aveva casa. Camminando di notte per strade secondarie o lungo i binari della ferrovia, arrivammo a Pisa nei primi giorni di novembre. Lì il mio compagno mi ospitò una settimana a casa sua, che era isolata in mezzo alla campagna . Mi ripresi un pò e con un nuovo vestito invernale procuratomi dai genitori del mio ormai amico di sventura , ripresi da solo il mio cammino per Firenze ed Arezzo. Arrivai ad Arezzo per la Festa dell'Immacolata e andai subito a rifocillarmi da alcuni lontani parenti che abitavano a Santa Firmina. Dopo due giorni di ristoro , ripresi il viaggio e atraverso Palazzo del Pero arrivai a Castaglion Fiorentino e di lì , attraverso la Val di Chio , a Cantalena. Lì , pur sentendomi a casa , non mi feci vedere da nessuno e mangiando castagne e camminando solo di notte , attraversai Sant'Egidio e arrivai a Tornia. Da lì attraverso i viottoli di Castel Giudeo e della Trafforata arrivai a Fiume, cioè a casa mia. Eravamo ormai alla vigilia di Natale del 1943 e i miei fartelli e la mia mamma mi dissero di non farmi vedere da nessuno , di stare nacosto e di andare ogni mattina prima dell'alba al nostro bosco- macchia della Giuanna , sotto la Badia di Ginezzo, dove nessuno mi avrebbe potuto vedere e di tornare a casa la sera a buio. Fino a giugno 1944 quando Cortona fu liberata vissi praticamente nei boschi di Ginezzo, aiutando i partigiani del Valli e di don Antonio Mencarini oppure tagliando legna nella macchia della Giuanna per la mia famiglia. Nel giugno passai due giorni interi dentro un castagno buso, senza mai uscirne e tornare a casa perché i tedeschi facevano rastrellamenti di partigiani e il secondo giorno mi passarano due volte vicinissimi con un loro cane che abbaiando era quasi arrivato a cento metri dal mio albero. Ebbi davvero paura e mi raccomandai a Santa Margherita. Arrivato a cento metri da me il cane lupo fu richiamato perché ai barocci, cioè sul versante della Trafforata davanti le Rocche di Ginezzo, dove io ero nascosto, si era aperta una sparatoria tra partigiani e tedeschi. Il giorno dopo i tedeschi cominciarono a ritirarsi verso Città di Castello e il 3 luglio cominciarono ad essere inseguiti dagli inglesi che avevano liberato Cortona. Il Quattro nella strada Cortona- Città di Castello passavano solo camionette inglesi ed io lascia il mio castagno e tornai a casa mia a Fiume ad aiutare i miei a mietere il grano e custodire gli animali, riprendendo la mia vita di contadino e di montagnino cortonese".
Ho riportatoquasi per intero questa testimonianza del ventenne soldato alpino , conduttore di mulo in terra di occupazione sul fronte francese, perché quel giovane cortonese montagnino era il mio babbo Gigi e penso che anche questa piccola testimonianza sull'otto settembre 1943 possa essere utile a comprendere e ricordare la tragedia italiana di quei giorni di ottant'anni fa.
Ivo Camerini