Pubblichiamo anche oggi molto volentieri le riflessioni del diario di Anna Cherubini. Riflessioni sull’essere mamme, sulla maternità come felicità e sudore. Grazie Anna!(IC)
Diario di un PEZZETTO DI LIBRO
Vi regalo il terzo capitolo del mio romanzo "Torneremo allegre" che può darsi non uscire mai, o chissà.
Qui parla di quando una donna inizia a volere un figlio e si confronta con le amiche che lo hanno già avuto e quella voglia torna indietro. La foto non c'entra ma c'entra.
Noi ragazze non siamo sicure mai. A volte vogliamo un figlio proprio perché siamo insicure. Temiamo di non essere abbastanza per colui a cui lo chiediamo, o che lui non sia abbastanza per noi, oppure che siamo tantissimo l'uno per l'altra e a maggior ragione questo figlio va fatto.
Facciamo tutto da sole, anche quando la convivenza va così bene che sarebbe meglio lasciarla stare com'è, almeno per qualche anno ancora. Perché poi non è detto che un figlio serva davvero, che porti davvero la felicità.
Mi chiedevo tutto questo tenendomi lontana dalla sintomatologia che alcuni chiamano istinto materno. Vedevo le mie amiche raggiungere quello stato di consapevolezza totale, ma ai miei occhi le vedevo anche cambiare troppo. Forse era invidia la mia.
Fatti i figli, loro iniziavano a fare le liste scritte delle paure che avevano, a lavarsi i capelli di meno, a mettere chili in più. Parlavano del lavoro che avevano inseguito e ottenuto con ambizione come di un fatto che era diventato marginale nella loro vita. L'importante era che restassero le ferie pagate e la malattia. Per non dire quanto conoscessero bene tutti i tipi di dermatiti, di dissenterie, di asme dei bambini. Di fronte a questo, le sciatalgie, le emicranie o il ciclo doloroso che avevano loro in quanto mamme erano niente. La realizzazione del desiderio più grande copriva tutto il resto.
Queste mie amiche erano stanchissime per le notti insonni, ma erano felici di passare il tempo con altre madri che come donne fino a quel momento gli erano state insopportabili. Ora, da neo-mamme, tutte le donne erano interessanti, mentre le amiche senza figli diventavano solo delle debosciate ancora attaccate alle loro notti brave. Tra queste io.
«E’ solo l'essere madre che ti dà la giusta prospettiva», diceva Claudia, ex-compagna di corse in motorino finalizzate a spiare uno, di ritorni a casa alle quattro di notte dopo aver spiato quell’uno. «Solo così capisci cosa conta nella vita, perché se non sei mamma non lo capisci, non lo puoi capire! E come fai a capirlo, come fai!»
Mentre mi parlava in quel modo, io guardavo i suoi capelli, un tempo un mantello di seta nera, che ora le restavano appiccicati alla testa, componendo una chioma piccola, un taglio a caschetto pratico e con ricrescita, «perché ora chi c'ha tempo per tenerseli lunghi o rifarsi il colore! E come fai! E come fai!» Ripeteva sempre due volte l’ultima frase, per dare più forza al concetto, forse. O boh.
Non mi avrebbe creduto se le avessi detto che riuscivo a capirla persino io, non tanto sul caschetto sobrio che da amante delle frezze colorate non potevo capire, quanto sulla fatica che deve richiedere il ruolo materno. Benché poi io fossi ancora lontana dalla pratica e quindi: ma che ne sapevo? ma che ne sapevo… ripetuto due volte come faceva Claudia. Ma tanto non mi avrebbe ascoltato, fomentata com’era nel suo monologo da madre: «Finché non diventerai madre anche tu, Nefy… non potrai mai… davvero mai… capire. Davvero mai.»
«Davvero mai. E come fai!» continuai io, regalandole persino la rima baciata.
Quel giorno, dopo un'ora di ascolto a senso unico, mi sono alzata dalla panchina e sono andata a correre, mentre la mia amica non si accorgeva neanche che mi allontanavo e continuava a ninnare il passeggino del figlio, a parlare da sola della sua vita micidiale. Che ad ascoltarla ci fossi io o nessuno era uguale, tanto lei si ascoltava da sola. E questa era Claudia.
Poi veniva Barbara, un'altra di queste amiche neo-madri. Stava alla finestra di cucina e cullava suo figlio appena nato. Dall'altra parte della strada la macchina della polizia sostava fissa sotto casa di un uomo agli arresti domiciliari. Ogni tanto lei salutava il poliziotto di turno con la mano libera, mentre con l'altra teneva il bambino in braccio, e dopo un po' non si vergognava di rivelare che le uscivano i lacrimoni della depressione post partum. Un giorno l'uomo arrestato ebbe un attacco di cuore, fu portato all’ospedale e l’agente smise di essere di guardia lì sotto. Intanto Barbara aveva smesso di piangere. Quel suo stato d'animo, la depressione post-partum, era durata tre anni. Era durata, stranamente, anche nel periodo in cui quello stesso agente staccava il turno e saliva a casa da lei, mentre suo marito era al lavoro. Lei metteva in pausa le lacrime giusto in quelle ore, uno sbalzo ormonale di qua e uno di là, uno brutto e uno bellissimo. Il bambino dormiva e lei e il poliziotto si godevano quel silenzio di casa che da umido di lacrime diventava umido di altro. Poi quando l’agente se ne andava, Barbara riprendeva a piangere e a impazzire dietro alle coliche del bambino, o ai cartoni animati o ai salti sul letto di quel piccoletto prossimo a cadere e farsi male. A volte succedeva davvero, e allora, sempre piangendo lo portava di corsa al pronto soccorso dove c’era una lunga fila di altre mamme stressate, che spesso piangevano come lei. Di solito il bambino non si era fatto niente. Quando il marito tornava era stanca e: “tutto tranne l’amore” diceva.
A parte queste immersioni totalizzanti come per Claudia, o al contrario fughe, come per Barbara, dalla condizione materna, queste mie amiche erano intenerite in modo melenso da qualunque nuova azione dei loro bambini, come se quelle degli adulti in confronto fossero il nulla. Traducevano il loro stupore per le banalissime scoperte infantili addirittura con la voce e le parole dei piccoli. Tutta una fila di “ci ci” per dire sì, o “ammamma” ogni fine frase. Sentirle mi dava un senso di crepa sul muro.
Io davvero non ero pronta per quel salto coraggioso. Loro invece, le ragazze con cui avevo fatto il liceo, le corse in motorino e i viaggi in Grecia, evidentemente lo erano, altrimenti il figlio non lo avrebbero fatto.
«Ma è vita che prorompe da sola! E’ un richiamo animale, capisci?», diceva Claudia una volta diventata incinta e amputato il mantello nero di capelli. Per un problema mio di gusto, ogni riferimento al mondo animale come metafora della maternità mi suonava fastidioso. Solo che a dirlo potevo risultare invidiosa, o acida, o priva di quella cosa sacra che è appunto l’istinto materno.
Allora eccomi, inizio a pianificare in modo ansioso le fasi future della mia vita che riguarderanno il mio ipotetico essere madre. Io che non so fare programmi nemmeno da qui a domani, mi metto a segnare i giorni fertili su un quaderno, a fare calcoli, a mangiare cibi che giovino alla fertilità, a prevedere il finale della storia e temere che non sarà bello come vorrei. Ma quella cosa dei cibi sani per essere più fertili già sento che altera in modo noioso il ritmo narrativo delle mie giornate. Eccomi di nuovo con Claudia, stessa panchina del parco, dopo che le ho confidato che anche io e Giovanni, insomma, ci stiamo pensando a questa storia del figlio. E non è che lei a quel punto apra il sorriso, si illumini, si stupisca e dica evviva. No. Lei parla “tecnicamente” di come prepararsi all’eventualità:
«Pertanto» indaga, «che tipo di alimentazione state seguendo?». E di nuovo. Deve solo dare lezione di maternità, non gliene frega niente di quella mia confusione da cui emerge uno strano “forse facciamo un figlio”, e continua, da sola: «Ad esempio mangiare troppi aranci non va bene. Danno eccesso di acidità e allora l'ambiente non è favorevole.»
«Ah.»
Il suo bimbo ormai cresciuto le sta ancora mordendo i capezzoli, lì sulla panchina, e io mi alzo per andare a correre. E lei:
«Che poi anche correre Nefy, non è proprio ideale sai?»
Non ho ancora iniziato, mi sto solo allacciando bene le scarpe da ginnastica.
«Perché dici?»
«Perché se hai avuto un rapporto mirato poche ore prima, ostacoli la risalita...»
La fatica del correre sarà niente rispetto a quella di ascoltarla ancora.
«Ma la risalita di che?» blatero mentre mi allontano.
«Degli spermatozoi!!!» urla lei dalla panchina. «Degli spermatozoi!» e lo ripete due volte, anche quello. Ti prego basta, penso, e intanto sudo, sudo un sacco già dopo i primi metri di corsa. Suderò tutta la vita, pensandomi madre.
Anna Cherubini