L’Etruria

Redazione

MINA AZMOODEH, ritratto di un'artista da giovane

MINA  AZMOODEH, ritratto di un'artista da giovane

In palazzo Ferretti - adiacenti a quelle più nobili e signorili che ospitano la mostra delle copie, autorizzate dalla Fondazione Picasso, dei disegni preparatori di Guernica -, esistono altre stanze di maggior rusticità che vengono ugualmente adibite a esposizioni di vario genere. Dal 1° al 31 agosto (orario 10,30-12; 15,30-20), è visitabile in esse la mostra “Contemporary Wild Art” che riunisce i lavori più recenti di tre artisti locali: Roberto Ghezzi, Mina Azmoodeh e Antonio Massarutto. Sono, le loro, opere in diversa misura interessanti: c’è la natura ferina degli animali totemici di Massarutto, i cinghiali, le aquile, i cervi costruiti in ferro o intrecciati con fili che sono simili a corde vitali trasmettenti sangue e energia, e c’è un sapore languido e nebuloso che si legge nei quadri di Ghezzi, il quale ama opacizzare la realtà con una nebbia poetica.

Nella prima e nella terza stanza i visitatori troveranno proprio i lavori di Ghezzi e Massarutto, questi sono troppo noti ai cortonesi amanti dell’arte e non ho quindi ritenuto di andare oltre le poche righe che gli ho dedicato. Mi perdoneranno se il resto di questo articolo, in ottemperanza alla parafrasi joyciana del titolo, sarà riservato soprattutto alla terza giovane artista, quella che quasi per istinto di protezione hanno posto in mezzo a loro, nella seconda stanza. Qui abita la piccola foresta d’alberi di Mina Azmoodeh, qui si respira un’aria esotica e si intraprende un viaggio dell’anima e dei sentimenti, vi sono ritratti soltanto alberi, alberi viventi dentro una cassaforte di simboli, alberi feriti e gocciolanti, altri intrecciati in un vincolo amoroso e brutale, altri risorgenti dopo abbattimenti crudeli, alberi alludenti a una umanità impaurita che non ha però ancora dismesso la speranza. Tutti questi alberi sono come avvolti in un utero di calligrafica poesia, ignota a chi non conosce il farsi, la lingua dell’Iran da cui Mina proviene. Ci sono inaccessibili tesori nelle sue chine che un occidentale può intendere solo come ornamento e prezioso esercizio di manualità e invece sono consustanziali alla figura e probabilmente ne estendono il significato. “Sono poesie, le poesie che amo di più” ha risposto Mina alla mia domanda su cosa fossero quei fittissimi segni in alfabeto farsi. Ho poi trascurato di chiedere se fossero solo testi di poeti iraniani o anche occidentali, ma conta poco in verità, anche se mi piace immaginare che vi siano almeno i versi del “Divano occidentale-orientale” di Goethe e quelli del mistico sufi persiano Hafez che furono di ispirazione per il poeta tedesco. D’altronde, in Mina un cozzo di culture ha causato una personalità elegante, sofisticata, molteplice e sfumata, più ricca e più incerta, e quindi indagare oltre sarebbe perfino inutile. Oriente e Occidente sono fusi in lei a una temperatura ideale, l’arte minuziosa del mosaico iraniano che ha appreso da bambina nel doposcuola e la scuola di calligrafia frequentata a vent’anni lei le ha con profitto coniugate alle tecniche visuali occidentali che ha appreso a Bologna, dove ha studiato prima di giungere a Cortona. Tutto questo arabesco di interferenze Mina lo restituisce sulla carta con una sensibilità speciale e lieve che si apprezza anche nei disegni in mostra. I suoi ricordi, il suo faticoso apprendistato fanno di lei, oggi, una sottile scrutatrice dell’animo umano, quando Mina parla del suo percorso personale e artistico, della tenacia con cui ha imparato, in successione, la colorazione delle tessere da mosaico, la calligrafia, l’olio e le altre tecniche pittoriche le si sommuove la pelle delle braccia e la voce diventa intermittente. È la storia di una vita giovane, ma già densa di eventi, in cui l’arte è stata medicina per molti affanni.

Alvaro Ceccarelli