L’Etruria

Redazione

"Pillole di Sovranità": una presentazione del professor Claudio Santori

"Pillole di Sovranità": una presentazione del professor Claudio Santori

Il fare un libro è men che niente, se il libro fatto non rifà la gente: questo aforisma del nostro toscanissimo poeta Giuseppe Giusti mi è tornato in mente dopo aver terminato la lettura di questo aureo libretto, come si diceva una volta per certi lavori egregi di piccole dimensioni, ma di grande contenuto. Lettura, manco a dirlo, tutto d’un fiato sia per l’oggettivo interesse dell’argomento, sia per averlo trovato esposto con uno stile perfettamente comprensibile in ogni sua parte, semplice, ma non semplicistico perché l’autore “tiene” la pur complessa tematica trattata, secondo la nota formula “rem tene, verba sequentur”!

E l’Autore “tiene” l’argomento perché ha unito agli studi universitari e a quelli preparatori al concorso di magistratura (fatti da autodidatta, come tiene a dichiarare) tre vite diverse, tutte vissute intensamente: prima, fino ai 15 anni, quella di contadino e pastore in campagna, con la scuola elementare costata 12 km. a piedi al giorno per frequentarla; poi quella di studente di scuola superiore fino ai 22 anni … ho detto tre vite: anzi quattro perché degli anni di liceo parecchi li ha trascorsi in seminario lucrando anche questa esperienza, diciamo spirituale. Terza vita quella di militare firmaiolo (così sentivo chiamare gli ufficiali subalterni quando ero militare) fino al grado di capitano, il che vuol dire anni e anni di esperienze di comando e organizzative. Quarta vita quella appunto di magistrato iniziata piuttosto tardi rispetto a certi standard, ossia a 37 anni dopo il congedo dall’esercito, seguendo il cursus honorum, da pretore a giudice di tribunale con funzioni sempre primo grado in civile e penale fino alla pensione.

Il libro consta di cinque parti Pillole di Sovranità (che dà il titolo a tutta l’opera), Punture di sovranità, Richiami storici, I tre principali problemi della società umana organizzata in modo democratico e la loro soluzione e infine Vivere da uomini liberi, essere leader di se stessi, vivere da sovrani. Già i titoli dicono tutto: definirei l’Autore un assetato di democrazia, un pellegrino della democrazia, un sincero amante del popolo, parola che compare nel libro decine e decine di volte, come una pietra miliare. Chi soltanto sfogliasse il libro, vedendola campeggiare ad ogni piè sospinto, sempre rigorosamente scritta in lettere maiuscole, potrebbe essere indotto a pensare che l’Autore in qualche modo vagheggi il ritorno ad una forma impossibile di democrazia diretta sul tipo di quella degli antichi ateniesi, come pure dal titolo potrebbe essere indotto a credere che l’Autore vagheggi una sorta di sovranismo: niente di più sbagliato! Questo amante del popolo è il rovescio speculare del populista!

Di fatto il libro è ispirato a tre pensieri che sono, manzonianamente, il sugo di tutta la storia: 1. Il pensiero della morte di fronte alla quale tutti gli uomini sono uguali, anche quelli che si sono dichiarati immortali, come i faraoni dell’antico Egitto. 2. Pare banale, ma è basilare: gli uomini nascono tutti nello stesso modo, liberi e uguali: il problema pertanto non è quello di conquistare questo stato della persona, ma quello di conservarlo, di evitare di farsi ridurre allo stato servile (e i modi di questo stato servile, come vedremo, sono tanti). 3.  Non fare agli altri il male che non vogliamo ci venga fatto: l’Autore procede ad un’originale interpretazione della fratellanza proclamata dalla Rivoluzione francese e dell’amore verso il prossimo emanante dal Vangelo. Scopo finale soddisfare la nostra sete di immensità ed anche di immortalità in luogo di quella dell’egocentrismo e dell’ingordigia.

Governo del popolo, dunque, che il popolo esercita mediante i suoi rappresentanti. E qui nasce l’eterno problema di questa rappresentanza che deve essere nell’interesse del popolo stesso, ovvero di ciascun cittadino, Ecco dunque il senso della sovranità popolare: non delegare tout court, ma controllare: lavoro e controllo.

Chi si trova in posizione dominante -spiega l’Autore- per prevaricare ed abusare dei propri simili ha bisogno di persone disposte a rinunciare al proprio stato di uomini liberi, di servi che lo assecondano. E perché mai debbono assecondarlo, si chiede l’Autore: non necessariamente per denaro o per ritagliarsi privilegi, ma anche semplicemente per un tozzo di pane o un piatto di minestra come è accaduto nei campi di sterminio nazisti. Così Pillole di sovranità sono i concetti che riguardano lo stato democratico che l’Autore con formula simpatica quanto efficace chiama il nostro condominio allargato mentre le punture di sovranità sono per il vecchio apicultore i correttivi necessari affinché il messaggio possa passare attraversare la coriacea pelle dei distratti e degli indifferenti.

Uno dei tratti originali del libro è la reductio ad minimum dei problemi dell’umanità: cioè la capacità di capire i problemi e di trovare il modo per risolverli; la capacità di passare alla fase esecutiva per raggiungere il risultato e infine la messa a punto del contenuto da dare all’esistenza, il modello insomma di comportamento nei confronti degli altri e delle cose. Ognuno di questi problemi, come vedremo è affrontato in maniera originale ed accattivante perché affermare la libertà e la sovranità dei cittadini è ripetuto spesso e volentieri da tutti ad ogni piè sospinto, ma non basta: libertà e sovranità non vanno definite, vanno vissute! Non c’è dubbio, per fare un solo esempio, che un uso corretto del referendum propositivo possa dare concretezza al naturale bisogno di trasparenza, possa veramente permettere al popolo di vigilare e controllare in modo tale che, specialmente per quanto concerne le risorse materiali, quelle necessarie alla vita, si possa arrivare ad un reale condivisione, sconfiggendo l’egoismo e l’esclusivismo che portano inevitabilmente all’ingordigia e all’arroganza.

Ma cos’è lo stato democratico? È un punto sul quale l’Autore insiste con un fervore da antico predicatore con un tono solo apparentemente scontato: fermo restando il rifiuto perentorio dell’uomo solo al comando, formula di comodo per mascherare quello che gli antichi chiamavano dittatore, nello stato democratico la sovranità non appartiene nemmeno  ai rappresentanti che noi eleggiamo e deleghiamo ad esercitare i poteri e a governarci. Nello stato democratico -ribadisce l’Autore- noi cittadini siamo il sovrano. E torna il POPOLO sovrano, sempre rigorosamente scritto a lettere maiuscole che nella convenzione di fbk rappresentano, com’è noto, il gridato.   

E questo grido dice che la sovranità di ciascuno di noi deve significare che non dobbiamo prostrarci né umiliarci, ma trattare alla pari. Non essere a nostra volta arroganti, ma solo fermi e decisi, consapevoli che la risposta a quello che chiediamo è un nostro diritto e che il darla è un dovere di chi abbiamo di fronte. Magnanima utopia, direte voi, e magnanima utopia ho pensato io leggendo il trobar chiaro e netto del magistrato Federici, per riflettere però subito dopo che se consideriamo tutto ciò magnanima utopia, ci siamo già messi dalla parte dei perdenti, degli inerti, dei deleganti che dicono e pensano “fuori mi chiamo”! Questo è manzonianamente il “sugo di tutta la storia”: un invito ad aprire gli occhi, a non abbassare la guardia, a non dire “abbado a far l’oste” a tenerci sempre informati. Perché i governanti, che siano re o rappresentanti eletti sono passeggeri, mentre solo il POPOLO è eterno, sempre in primo piano con la testa rialzata, pronto a ricominciare da capo, nonostante i maltrattamenti, le ingiurie e le delusioni subite.

Non magnanima utopia, dunque, ma semmai orgoglio di appartenenza al POPOLO e vigorosa spinta a non subordinare il bene comune agli interessi generali degli altri perché gli altri rappresentano -non sfugga l’originalità dell’espressione- il nostro io allargato, la parte nobile di ciascuno di noi, quella che ci consente di uscire dal nostro piccolo orizzonte, di ampliarci e, in un certo senso, di universalizzarci. Solo in questo modo avrà un senso la netta separazione dei due concetti di Popolo Sovrano e di Stato che agisce in suo nome. Trovare il modo, -senza perdere ovviamente di vista il proprio interesse- di avere un occhio per il prossimo, di verificare se e quando e quanto i suoi bisogni siano soddisfatti, è secondo l’Autore il miglior modo di onorare il concetto di Stato democratico! Controllare, ribadisce continuamente, questo è sovranità. Ovvio che questo controllo sarà esercitato nei limiti delle disponibilità e della forza spirituale di ogni singolo cittadino: l’importante è tenere desto nella propria coscienza il concetto. Si potrà obiettare che questo atteggiamento può essere gravoso, difficile e anche pericoloso, specialmente per il cittadino che lavora nel privato, ma anche per chi è impiegato nella pubblica amministrazione per cui è vero da una parte che bisogna agire con prudenza e saggezza, ma è anche vero, dall’altra, che il pericolo è inversamente proporzionale alla partecipazione, alla consapevolezza generale dei diritti di ciascuno e alla condivisione dei principi!

Il cittadino può esercitare questo controllo per mezzo del potere giudiziario perché è soltanto per via giudiziaria che si può reclamare quello che ci spetta nel caso in cui ci sia proditoriamente negato: se, per fare un esempio, un’assicurazione ci offre 5000 Euro quando il danno è di 30.000, adire la via giudiziaria è per l’Autore un atto di sovranità! Naturalmente bisogna poter contare su uno stato efficiente e capace, dotato di organi che sappiano esercitare i propri poteri indirizzandoli verso l’equità e la giustizia sociale: l’Autore fornisce in proposito l’elenco dei principali problemi indicandone la soluzione che non può, comunque, non venire dall’incentivazione della collaborazione e dalla salvaguardia dell’ambiente naturale e del patrimonio nazionale: cose che la classe dirigente deve saper far valere al fine principalmente di assicurare il lavoro a tutti.

A rendere fecondo e produttivo il rapporto dei cittadini con lo stato e dei cittadini fra di loro, è l’uguaglianza che trova secondo l’Autore, la sua migliore, anzi ottimale realizzazione nell’invito evangelico ad amare il prossimo: sembra banale, ma è ormai troppo spesso dimenticato e bypassato! E tornano alla mente dell’Autore le sue amate api dalle quali ricava salutari lezioni di comportamento: “Non ho mai visto -scrive- una sola di esse prevaricare sulle altre, impossessarsi di risorse a danno della collettività: se un’ape scopre una fonte di ricchezza, comunica la scoperta alle compagne”. Purtroppo le api, come pure tanti utili insetti, vanno scomparendo in un mondo dove, proprio perché manca la collaborazione e la condivisione, abbondano invece barboncini e chihuhaua ai quali, lamenta spiritosamente l’Autore, facciamo amorevolmente indossare le mutandine di Dolce e Gabbana e le mantelline di Versace , come raccomanda la televisione commerciale nelle campagna contro il maltrattamento degli animali. Che sarebbe cosa buona e giusta, se non fosse che questi amorevoli consigli vengono solo per gli animali che garantiscono un ritorno commerciale: degli altri non interessa niente a nessuno!

Assodato esaurientemente con dovizia di esemplificazioni che è con il Potere Giudiziario che il popolo può far rispettare e far valere il proprio stato di libertà e di sovranità, l’Autore affronta la questione assai più delicata del rapporto del cittadino col Potere Legislativo che deve essere esercitato in modo che sia espressione della volontà e degli interessi del popolo. La partecipazione in questo caso, nota l’Autore è comunque limitata, ma riguarda questioni che possono avere rilievo grande, per non dire in certi casi epocale, come avvenne per il referendum del 1948 sulla forma di governo e quello sull’aborto del 1970.

Bellissime ed intense pagine sono dedicate alla disamina, con la quale non si può non concordare, di quella falsa idea di libertà applicata al commercio e alla distribuzione dei beni definita globalizzazione. “Una parola spocchiosa -spiega l’Autore con toni da profeta biblico- al servizio dell’immoderatezza umana , per dire che il commercio deve essere esercitato liberamente in tutto il mondo. Di globale però ha solo l’ingordigia e l’arroganza di chi detiene il monopolio del commercio …pag. 171 fino a ingiustizie sociali in fondo alla pagina.

Sul finire della prima parte l’Autore mette il cittadino in guardia nei confronti della fretta con cui vengono proposte leggi, con l’argomentazione della ricerca dell’efficienza specialmente nei confronti del tentativo da parte dell’autocrate di turno di indicare quelli che diventeranno i suoi rappresentanti con l’auspicato risultato di mettere il Parlamento, l’organo delegato ad emanare le leggi, quasi completamente alla mercé del Potere esecutivo! Questa gabellata per efficienza, tuona l’Autore, è in realtà l’espediente per far approvare una legge il giorno stesso in cui  serve al cosiddetto “Uomo solo al comando!”.

Ed eccoci, con la seconda parte, alle punture di sovranità dopo le pillole. L’amore e la fratellanza che portano alla collaborazione e all’aiuto devono sostituire la competizione con la condivisione universale. Non è un auspicio, ammonisce l’Autore, ma un grido di allarme, un appello disperato; un appello alla salvezza, una sollecitazione a prendere consapevolezza del baratro che abbiamo davanti e ad invertire la rotta per evitare di precipitarvi! Seguono bellissime pagine   sui pericoli del populismo, sulle dittature, i totalitarismi, i monopoli. Qualche esempio: pagg. 202-203-204.

La terza parte è quella che maggiormente si presta alla discussione perché è incentrata su tre figure che non avremmo pensato di proporre insieme: S. Francesco, Machiavelli e Giulio Cesare. Naturalmente, a parte S. Francesco proposto come modello in toto, l’Autore coglie nel Segretario Fiorentino e in quell’emblema stesso dell’uomo solo al comando gli aspetti utili proprio ad esorcizzare gli aspetti negativi del concetto stesso di potere. Tutti al sentire il nome di Machiavelli pensano alla celebre frase: il fine giustifica i mezzi, che peraltro lui non ha mai scritto (devo in parte correggere l’affermazione di pag. 281), ma che è stata sempre presentata come estrema sintesi del machiavellismo. Giustamente invece l’Autore vede nell’opera maggiore del Machiavelli non tanto un manuale di comportamento dell’uomo solo al comando, quanto la cruda e realistica esplicitazione di come è e di come si comporta per conservare il potere. Utile quindi per imparare a confrontarsi col potere ed esorcizzarlo. Lettura a pag. 181.

Similmente si può trarre insegnamento da Giulio Cesare, modello di agire efficace che in ultima  analisi insegna indirettamente quanto sia importante capire i problemi per poter sperare di risolverli. Un capostipite di sovrani indicato all’uomo del popolo? Vedi pag. 287.

Nella quarta parte l’Autore esamina con dovizia di particolari e con persuasiva e calorosa perorazione i tre principali problemi della società umana organizzata in stato democratico e la loro soluzione insistendo sul popolo sovrano dello stato a patto che 1. Siano disponibili le risorse e il loro utilizzo; 2. Che le attività pubbliche operino in modo trasparente e visibile3; 3. che il potere del giudice sia rivolto a far giustizia sentendosi responsabilmente investito del potere di agire nel nome e per il bene del popolo. Particolarmente belle e suscitatrici di profonde riflessioni sono le pagine dedicate alle risorse umane che trovano impiego su quelle materiali. Gli uomini costretti a vivere senza lavoro deperiscono nell’inedia oppure entrano in conflitto fra di loro ed impiegano le risorse personali a distruggersi anziché a sviluppare e produrre quelle materiali. Fenomeni perversi che si incrementano l’uno con l’altro e producono solo odio e risentimento anziché collaborazione e sviluppo. Donde lutti e disastri. Lettura alle pagg. 298-299.

Sembrerebbe un sermone impostato su considerazioni dialettiche e retoriche, astratte, insomma, se non fosse che l’Autore con chirurgica precisione incide e porta allo scoperto i bubboni reali di uno stato che non funziona, che peraltro sono sotto gli occhi di tutti senza che nessuno abbia fatto e faccia niente: 1. la pessima gestione dell’Alitalia non esitando a puntare il dito sul fatto che è stato pagato e strapagato il personale impiegato, 2. La pessima gestione del servizio sanitario: come è possibile, che le strutture sanitarie pubbliche nel campo delle risonanze magnetiche, per citare un solo caso, soddisfino in un anno il numero di richieste che la stessa struttura privata soddisfa in un mese? 3. La corruzione e/o l’inefficienza della gestione dei lavori pubblici per cui, sempre per fare un solo esempio, il costo di un km. di autostrada viene a costare il triplo di quello che sarebbe necessario? 4. La situazione di inefficienza e mancanza di produttività dell’amministrazione della giustizia. Con un pizzico di ironia nel denunciare quello che l’Autore chiama il colmo dei colmi: a pag. 350.

Naturalmente il lettore troverà pagine importantissime sul tema dell’inefficienza della giustizia, il campo nel quale l’Autore ha lavorato e del quale ha una conoscenza profonda, diretta e anche drammatica: il lettore troverà sviscerato il problema della lunghezza dei processi dovuta al girare a vuoto, alla presentazione di prove inutili e pretestuose, alla sollecitazione di rinvii e dilazioni. L’Autore, forte della sua esperienza in trincea, giunge ad una conclusione che non può non stupire: se si riuscisse ad eliminare il lavoro ostativo e il remare contro il vero e delicato lavoro di una giustizia efficace sarebbe non più del 10/15% di quello che realmente è nella prassi quotidiana dei tribunali che a questo punto a me, profano, viene da definire esasperante! Tanto è vero che l’Autore non esita a dichiarare che non c’è alcuna ragione che giustifica la mancanza di personale nell’organico della magistratura: basterebbe delegare il lavoro attribuito alla competenza del giudice singolo alla magistratura onoraria: quindi il problema principale non è quello della mancanza di personale. A me, a noi profani non sarebbe mai venuto in mente, ma l’Autore ci spiega che ciò è previsto dalla Costituzione (Art. 106: sfido chiunque dei presenti ad averci fatto caso!): soluzione radicale regolarmente disattesa per senso di onnipotenza e prevaricazione di casta!

Una lunga meditazione sul lavoro con alcune osservazioni tanto originali quanto semplici, ma non semplicistiche, conclude il libro con l’ultimo, immancabile richiamo alla natura, al messaggio evangelico e alla solidarietà. E con una disarmante confessione (che è però constatazione generale): dopo aver per pagine e pagine dissertato su quello che dovrebbe fare, e generalmente non fa, lo stato in merito al lavoro per tutti, alla solidarietà, alla giustizia efficiente, confessa di non saper indicare uno stato da prendere come modello, né di destra, né di sinistra, né di centro, perché dappertutto, in tutti gli stati reali, si annidano la prevaricazione e lo sfruttamento delle risorse sbilanciato verso i pochi e i pochissimi, a danno dei molti e dei moltissimi! Col risultato che, purtroppo da sempre, gli stati finalizzano il lavoro all’ammazzarsi vicendevolmente invece che a collaborare e solidarizzare. In effetti viene da concordare: una ricetta non c’è, salvo il richiamarsi all’esempio che ci offre la natura, per esempio con le formiche: non a caso il libro si chiude con una bella foto delle formiche che si fanno strada esse stesse per il lavoro comune di approvvigionamento. Anelito ad una vera giustizia, forse impossibile su questa terra e riferimento alle formiche: forse non sa il gentile Autore di essere stato preceduto in questi due pensieri nientemeno che da Dante Alighieri laddove si riferisce alle formiche proprio per sottolinearne la funzionalità del comportamento (Purg. XXVI: “Così per entro loro schiera bruna/ s'annusa l'una con l'altra la formica/ forse ad espiar lor via e la fortuna”) e sogna con struggente passione una giustizia ideale (Par. VI: Quindi addolcisce la viva giustizia / in noi l’affetto sì, che non si puote / torcer già mai ad alcuna nequizia), consapevole che quella di questa terra per i più svariati motivi è inefficace quando non addirittura iniqua!"

Claudio Santori