Sono passati esattamente 60 anni dal giorno in cui, con i rinvenimenti fossili e le relative campagne di scavo nelle cave di sabbia del Chjùcio, cominciò a Farneta l’avventura paleontologica di don Sante, ben presto definito dalla stampa l’Indiana Jones della Valdichiana. L’Associazione Amici del Museo fatto in Casa, vuole celebrare questo anniversario riproponendo il bel racconto della dottoressa Annalisa Berzi, tratto dal libretto “Don Sante Felici e la sua terra: le Raccolte Paleontologiche”, stampato in occasione della mostra allestita dopo la morte dell’abate.
«Era il giorno dell’apertura della caccia in Toscana, il 18 settembre del 1963, quando la telefonata di un mio zio mi comunicò che il Giornale Radio delle 8,00 aveva dato la notizia del ritrovamento di resti fossili di un elefante a Farneta, in Val di Chiana, e che lo scavo era stato effettuato da Geologi dell’Università di Genova..
Da sei mesi io ero il Conservatore incaricato del Museo dell’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze, e la cosa mi stupì molto e non capivo perché la segnalazione non fosse arrivata al Museo, trattandosi di un rinvenimento in Toscana, data anche l’assenza di altri Musei paleontologici nella zona..
Presi subito contatto con la RAI e con la Soprintendenza Archeologica dell’Etruria, competente anche per i reperti paleontologici, e riferii al prof. Giovanni Merla, Direttore dell’Istituto e, con le brevi indicazioni ricevute, il prof. Azzaroli, titolare della Cattedra di Paleontologia ed io partimmo subito con la “Canarona” (un vecchio “1100 B” FIAT) dell’Istituto, percorrendo un po’ avventurosamente quei pochi tratti appena utilizzabili dell’Autostrada del Sole in costruzione.
Giungemmo a Bettolle dove il Marchese Franco Serra, proprietario della Tenuta "Puccio Profumo", nelle cui sabbie era stato raccolto il cranio fossile di un elefante con parte delle zanne, ci ricevette cortesemente.
Fummo subito informati che già da qualche giorno il reperto era stato recuperato dal dr. Eugenio Andri, micropaleontologo presso l’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Genova, e trasferito presso il Museo di Scienze Naturali di Genova, città natale del Marchese Serra. Ci recammo sul luogo del ritrovamento, una cava di sabbia aperta per i lavori dell’Autostrada, e lì trovammo, fra le ruspe, un piccolo prete con la tonaca tutta impolverata, le scarpe piene di sabbia e due occhi azzurri vivacissimi, che discuteva animatamente con gli operai che non lo avevano avvertito e che volevano allontanarlo, mentre lui voleva invece fermare i lavori per cercare altri resti di quello scheletro.
Fu così che conobbi Don Sante Felici.
Lui era, già da alcuni anni, Ispettore Onorario della Soprintendenza Archeologica dell’Etruria ed unico esperto riconosciuto dalla popolazione su ciò che di “antico” veniva trovato nella zona, e non gradiva ingerenze esterne, nella sua Val di Chiana.
Ed era, perdipiù, molto contrariato: aveva sentito anche lui la notizia dal Giornale Radio; vigeva (e vige tuttora) la Legge 1089/39 che tutela i Beni Archeologici e Paleontologici; la Soprintendenza non era stata informata, e neppure Lui, che aveva il compito di vigilare su quanto avveniva nella zona!!!!!
Si sentiva scavalcato e forse anche offeso: chi aveva deciso di mandare a Genova, quell’elefante, così lontano, e dove, fra altro, i suoi compaesani difficilmente sarebbero andati a vederlo???
Si voltò. Il prof. Azzaroli ed io ci presentammo e chiedemmo notizie del rinvenimento.
All’inizio ci fu un po’ di diffidenza da parte sua: cosa c’entra l’Università, e chi erano questi che venivano a pretendere i fossili dalle “sue terre”??? E poi non avevano nessun incarico da parte della Soprintendenza??? Chi .... ”decideva” lì, era lui, e ...(semmai!!!) ... il Soprintendente!!!!!
In effetti il suo atteggiamento era assai comprensibile: lui, come Ispettore Onorario voleva essere informato di tutto ciò che veniva trovato in Val di Chiana e che tutto rimanesse nella zona, e possibilmente presso la “Sua” Sagrestia dell’Abbazia di Farneta, dove Lui stesso già aveva depositato altri reperti archeologici e paleontologici in accordo con la Soprintendenza, e dove voleva far nascere un Museo locale.
Ricordo che questo piccolo e ..”agguerrito” prete mi commosse quando aggiunse che anche i fossili erano Creature del Signore e che forse anche questi, se portati a Farneta in un Museo, avrebbero contribuito anche a far frequentare di più ai suoi compaesani la Chiesa, la Sua Chiesa!!!
Quando capì che noi eravamo lì per chiedere notizie allo scopo di riportare il reperto in Toscana, si calmò. Però lo voleva a Farneta!!!! Rispondemmo che su questo avrebbe deciso il Soprintendente.
Gli spiegammo poi che il Marchese Serra, non conoscendo Musei paleontologici nei dintorni, si era rivolto, in buona fede, al Museo naturalistico della sua città e che il Direttore del Museo aveva chiesto a sua volta aiuto all’Università di Genova per il recupero.
E fu un bene: altrimenti il tutto sarebbe andato disperso. Rientrati a Firenze informammo il Soprintendente e, senza difficoltà, l’elefante, dopo un breve soggiorno a Genova, tornò in Toscana, al Museo di Paleontologia di Firenze, e don Sante fu abbastanza d’accordo, date anche le dimensioni del reperto.
Fu restaurato ed inventariato con la sigla IGF 10957.
Secondo le abitudini del Museo, e di comune accordo con Don Sante, decidemmo di dargli anche un nome: da allora il cranio del primo elefante scavato a Farneta si chiama "Puccio", in omaggio al nome della proprietà in cui fu raccolto.
Da allora, “Puccio” è “in compagnia” di altri elefanti: “Paride”, la splendida “Linda” e con tanti altri reperti segnalati proprio da Don Sante, che divenne amico di tutto il personale del Museo.
Questo era Don Sante: un “piccolo” abate impolverato, molto convinto della sua missione di religioso, con un grande amore per la sua gente e per la sua terra e molto ligio ai suoi doveri, ricco di curiosità e di entusiasmo per tutto ciò che lo circondava. Un uomo che anche per la storia della paleontologia della Toscana ha avuto indubbiamente un grande ruolo. Lo ricorderò sempre con un grande affetto e con il massimo rispetto».
( a cura dell'Associazione Amici del Museo fatto in Casa )