Sembrerebbe illogico essere gioiosi mentre si presta cure a persone sofferenti. Era, invece, la qualità speciale dell’infermiere professionale Aimo Petrucci: affrontare le malattie trasmettendo umanità e buon umore, velando ansie e traversie proprie.
Giunse all’ospedale di Cortona in ripresa, dopo il quasi svuotamento del reparto chirurgico, e in sala operatoria stazionavano le mosche. Segaligno, profilo da rapace, una cicatrice gli segnava una guancia, pelle ambrata di chi sta all’aria aperta, se libero dal lavoro, a caccia o curando l’orto. Scrutava l’interlocutore per coglierne l’umore. Il suo era positivo, anche immerso in pensieri grigi, deciso a far virare al buono lo stato d’animo altrui. Riuscendoci. Sorridente e giocherellone, esperto nei suoi compiti, spontaneo, legava facile usando lo scarno e buffo linguaggio di strada misto al dialetto, seguendo alla lettera il principio del parla come mangi. A noi colleghi, in alternativa al “buongiorno!”, ci apostrofava con epiteti poco eleganti: “Finocchio!” o, altrimenti, “Trombatore!”, dando vita a spassosi convenevoli. Abbracci virtuali, scevri di malizia e doppi sensi. Equivalenti a “Ciao, ci sono!”, “Al bisogno, chiama!” “Come stai?” saluti rassicuranti, all’apparenza demenziali, quanto invece spiritosi e calorosi. Scintille mattutine, preludi a giornate senza paura, pur immersi in mille sofferenze umane. Fatalisti pronti ad aiutarsi in ogni imprevisto, specie se difficile.
Il mestiere l’aveva maturato nel servizio militare in marina e in altri ospedali toscani. Quando venne a Cortona le corsie ospedaliere si stavano riempiendo di nuovo. Dopo la crisi, a metà anni Settanta, a causa della ridotta attività di Rino Baldelli (chirurgo e ginecologo), funestato da radiodermite alle mani. Allora, un solo infermiere bastava a tenere aperto il reparto chirurgico, pulizie comprese. I pazienti erano così rari che li ricordavi tutti, uno ad uno. Come quell’anziano a cui, al pasto, proposi la minestra grandinina. “Ma scherzi?!... Dal ‘49 non mangio più minestra. Operato allo stomaco, quando tornai a casa, pensando di farmi piacere, mi prepararono grandinina in brodo d’oca! Fui riportato, di corsa, in ospedale coi ai crampi allo stomaco… da morire!”
Il brodo di carne ospedaliero, dato ai pazienti, era più digeribile del grasso d’oca, e qualcuno, come Aimo, gli avanzi l’imbustava per portarli al suo cane. Se non che, un tardo pomeriggio al cambio turno, nel nutrito via vai dei parenti all’ingresso, ad Aimo, mortificato, schiantò la busta della grandinina! che si sparse, bloccando il traffico. Rapidamente, ripulimmo il pavimento, mentre lui, con verve consueta, raccontò scene ridicole dell’amato cane, facendoci sbellicare. Ghiotto di cotiche di porco, una volta gliene aveva gettata una sana, che il povero cane, poco dopo, la rifece intera! “Non l’aveva masticata sto stupido... l’aveva succhiata! (mimando il verso del cane, bramoso d’ingozzarsi). Dopodiché ha strusciato le chiappe in terra per mezz’ora, sto coglione”. Tanto che, in seguito, volendo fare una sana risata, bastava ricordare una delle scenette del can di Aimo. Fatti simili capitano a tutti, però trasformarli in gag ci vuol talento, soprattutto a saperli raccontare; ad Aimo veniva spontaneo e a getto continuo. Egli vedeva la realtà come sarebbe ideale viverla: con leggerezza e ironia. Quel modo spensierato di porsi farebbe crollare di colpo i clienti a psicoterapeuti e farmacisti.
Smilzo, a tavola era una forchetta insuperabile. Scherzando, gli si diceva: “Per caso, hai la tenia?!” In realtà, apparteneva al tipo di persone mai sazie davanti a cibi appetitosi. Ricordo la scommessa tra lui ed altri, tra cui il povero Giorgio Ceppi - altra gran forchetta - dopo una cena succulenta, a Montanare. Scommisero chi per primo fosse riuscito a mangiare una grossa bistecca con l’uovo sopra, alla Bismarck. Non importa chi vinse, ogni rivale spazzolò il piatto, voraci quanto il can di Aimo.
Vissuto fino agli ottant’anni, rischiò la pelle più volte. Salvato dalla sua perizia, autodiagnosticandosi a tempo l’insorgere dei pneumotoraci spontanei di cui soffriva, riuscendo a guidare i soccorritori sul trattamento da fargli.
Uscito dal ruolo d’infermiere, lasciai io ad Aimo lo scomodo posto di ferrista in sala operatoria. A cui si accedeva per capacità tecniche, ma anche se graditi ai colleghi di reparto: le sorelle Dina e Gina, Anna, Marino, Nevia, Milena. In quel lavoro, lealtà e fiducia reciproca tra collaboratori devono essere massime, per la sicurezza degli operatori e di chi sta sotto i ferri. Aimo mi rimproverò più volte d’avergli lasciato quel posto: appagante, ma stressante e faticoso. Se pure nel contesto tranquillo e sicuro creato dal chirurgo, Lucio Consiglio. In sala operatoria si può pensare che ci sia poco da zubbare, ed è vero, specie di fronte a frequenti sorprese crudeli, aprendo addomi di amici, parenti e sconosciuti, ma nel clima di buon umore si lavora meglio.
Caso volle che il mio dirimpettaio, sindaco di Tuoro, fosse Danilo Fruscoloni, fratello della moglie di Aimo. Da tale coincidenza, ebbi modo di valutare uno dei sindaci più amati nella storia del suo Comune. Scomparso precocemente, e non solo dalla scena politica. Era “comunista, comunista!”, avrebbe fatto esclamare Verdone, in un film, a un personaggio simile, brandendo non uno ma due pugni. Danilo e Aimo furono tra quelli più consapevoli che la fine del PCI sarebbe stata una iattura non solo per i comunisti ma per tutti: cittadini e lavoratori. Dei cui diritti sociali conquistati s’è fatto strame sull’altare del mercato.
Insieme a Danilo, conobbi l’ottima cucina di sua sorella, accasata Petrucci.
La nostalgia è suscitata da persone, cose, situazioni, e, al trascorrer del tempo, tra le nostalgie più ghiotte ci sono sapori e profumi del cibo di mamme e nonne, ingredienti sui quali la moglie di Aimo era maestra nel ricrearli. Momenti di gioia. Gioia avara con Aimo, negli ultimi anni di vita. Per quanto lui avesse dispensato allegria a piene mani con la sua presenza in ogni ambiente frequentato. Il destino, spesso, è crudele.
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