La simpatica e ancora giovanile donna ottantaquattrenne, che, dopo i due anni della pandemia, reincontro nella sua casa di Cortona non è un' eroina alla "Sarta di Parigi" di Kaufmann o alla "Sarta di Chanel" di Cambron, ma è una testimone esemplare di una vita femminile del nostro Novecento cortonese. È una “ donna montagnina” verace , come con orgoglio lei stessa si definisce, che ancora sa prendere di petto la vita e gestire alla grande il suo quotidiano. E che , pur adorata da figli, nipoti, parenti ed amici, ancora non rinuncia a praticare la sua straordinaria professione di “sartina italiana” sempre pronta a “sarcire” (restaurare) abiti da donna e da uomo, nel ricordo di una mamma e di una nonna che già da bambina le avevano insegnato le abilità manuali del classico “ fai da te”.
Dina Alunni Cipollini è stata per tutti i decenni del Secondo Novecento la “sarta di Borgo Casale” e anche nel nuovo secolo ha continuato, pur in maniera più saltuaria e ridotta, la sua passione di vita nella bella casa in Cortona, dove si è trasferita dopo la sua intensa e “arcadica” vita nella montagna cortonese.
Già nel 2018 (dopo il mio articolo sui suoi ottanta festeggiati all’agriturismo “ Casale 36” dei figli Gino e Grazia) Dina mi aveva confidato la sua volontà di raccontare ai lettori de L’Etruria un po’ della sua storia e della sua vita di montagnina del Novecento.
In una mattina di agosto di questa torrida estate 2022 ho accettato il suo invito per un caffè e ho ripreso il discorso registrando la sua storia semplice , ma grande, di donna , di figlia, di mamma , di sarta , assecondando il suo desiderio di lasciare “ una traccia alle mie adorate nipoti e all’altrettanto adorato, anche se ormai grande e già bravo e ben avviato, nipote”.
Ho suddiviso il suo lungo racconto in più puntate. Ecco qui di seguito la prima.
“Mi chiamo Dina ed ho 84 anni. Voglio ricordare, un po’ alla meglio, la mia vita di montagnina. Sono nata il 26 gennaio 1938. Era inverno e a Casale dove sono nata ( circa settecento metri di altezza sul mare) a quel tempo faceva molta neve. Quando la mia mamma cominciò ad avere le doglie per farmi nascere , il mio babbo, con gli uomini del vicinato, presero i badili e aprirono una rotta da casa mia alla casa della levatrice, distante circa tre chilometri , per andare a prenderla. Mamma mi ha sempre ricordato che subito dopo che sono nata per sei mesi mi ha tenuta in una culla di legno che , come materasso, aveva un cuscino riempito di paglia presa dal pagliaio nell'aia di casa.
La mia famiglia non era ricca , ma neanche molto povera. Il mio nonno faceva il calzolaio e così pure il mio babbo e i suoi fratelli. Facevano tante scarpe per tutta la gente della montagna cortonese che a quei tempi era abitata da tante famiglie che campavano con il ricavato dai loro piccoli poderi dove coltivavano grano, patate , fagioli e tutto quel poco che allora serviva per vivere. Poderi dotati anche di boschi dove si coltivavano castagneti di marroni e vitarine, che si mangiavano nei mesi autunnali ed invernali. La mia mamma Amelia faceva il pastore di pecore e la mia zia di maiali. La mia nonna era la massaia di casa e si occupava di me e della mia cugina più grande che era orfana di babbo. Poi avevo anche una cugina più piccola.
Quando avevo due anni il mio babbo partì per la guerra, negli alpini, e ricordo che dal fronte di tanto in tanto ci scriveva qualche lettera per dare sue notizie aalla mia mamma e agli altri familiari. Ma ricordo poco di quegli anni, perché ero piccola anche se allora si cresceva in fretta.
Ricordo che quando ritornò a Cortona ferito ed infermo , la mia mamma mi portò alla città a piedi e trovammo il babbo ricoverato in un ospedale da campo, che era stato allestito nel Convento delle Suore Stimmatine.
Trovammo babbo Gino infermo e bianco come le lenzuola del letto in cui era sdraiato e molto ammalato. Mamma ed io eravamo molto preoccupate, perché ci dissero che il babbo era grave e forse poteva morire. Inoltre, ci dissero che stavano arrivando i tedeschi e che avrebbero portato tutti i soldati, anche gli ammalati, in Germania. Allora tornammo a casa molto disperate e il giorno dopo la mia mamma e il mio nonno Girolamo lo andarono a prendere con l’aiuto di Fra Fedele che aveva un calesse e un cavallo. Arrivato al ponte dei Mansi , subito dopo i Barocci, Fra Fedele si fermò perché per arrivare a casa nostra c’era solo un piccolo sentiero praticabile solo a piedi. I nostri vicini, tra i quali ricordo il giovane Gigi dei Camerini e Nestasio dei Rofani, fecero una barella con assi di legno e lo portarono su fino a casa nostra, che era in cima al poggio di Valentina.
Senza di loro babbo Gino non sarebbe potuto salire a casa e ritornare sul suo letto, dove , piano piano, in capo a pochi mesi guarì e ricominciò a fare le scarpe, cioè a riprendere la sua vita di calzolaio della nostra montagna.
Anche mio zio Emilio tornò ferito gravemente dalla guerra, ma nonostante tutti questi gravi problemi nell’estate 1944 ritornammo ad essere felici, perché la famiglia si era ricomposta e si era tornati a vivere la nostra vita di montagnini ”. (Continua )
A cura di Ivo Camerini