È un cortonese, uno dei maggiori esploratori dei linguaggi artistici contemporanei. Curatore, scrittore e critico d’arte, docente e direttore del Dipartimento Arti Visive di NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e Roma e molto altro ancora in Italia e nel mondo.
La sua influenza nel mondo dell’estetica e della narrativa visuale è tanta quanto la sua affabilità, disponibilità, il suo equilibrio, non scontato a certe sfere e non comune tra suoi colleghi, anche meno affermati.
Marco, dovrai accettare che ti chieda del tuo legame con il nostro territorio. Quando ci siamo sentiti mi hai rivelato di aver passato a San Pietro a Cegliolo questa seconda stagione pandemica. Raccontaci la tua Cortona e quanto lontano ti ha portato il viaggio alla conoscenza del bello.
Cortona c’entra con le tue scelte e la tua formazione? La racconti come una grande piazza pulsante di umanità e flusso di idee…
Qualche anno fa il settimanale L’Espresso - in un numero che apriva il 2017 - mi chiese perché come indagatore del nuovo avessi sempre lo sguardo rivolto alle spalle. La risposta fu: “perché il passato è più attuale del presente e più enigmatico del futuro”. Non so se questo mio credo abbia a che fare con Cortona, ma il racconto del popolo etrusco che ha smarrito la propria lingua deve avere marcato indelebilmente l’infanzia di qualcuno che, come me, ha vissuto pure due anni sopra un ipogeo. Non avrei mai pensato poi che il destino ci avrebbe riservato una sorte simile, con l’89, quando ci siamo improvvisamente trovati a vivere un tempo del dopo, un tempo postumo, una lingua diversa. Di fatto tutto il mio lavoro si è concentrato sugli archivi del moderno, il mio metodo è stato definito ‘archeologico’ e la memoria ne è diventata il tema centrale: non come qualcosa che deve essere ricordato ma come una malattia genetica, che non puoi estirpare. Ecco che se nel mio laptop apro la cartella nominata ‘Cortona’ c’è già quasi tutto. In prima media mi portano a vedere la proiezione del “Gino Severini” di Sandro Franchina in un cinema in Via Roma che adesso non esiste più. Un film che, nel 2004, avrei ripresentato in Piazza Signorelli in ricordo di Sandro. In IV ginnasio incontro Valentina, la compagna che mi avrebbe aperto mondi (non uno solo) e con cui conosciamo Marcella Pavolini, Jeanne Fort, la famiglia Severini-Franchina, Joe Tilson, Jannis Kounellis, Salvatore Sciarrino e moltissimi altri. Erano anni in cui poteva venire a far visita al liceo classico un musicista come Luigi Nono, potevi incontrare all’ospedale uno dei padri fondatori della storia dell’arte italiana come Carlo Ludovico Ragghianti (che per me sarebbe diventato una sorta di nonno). Al Bar Signorelli avresti preso un caffè con Adrienne Mancia, curatrice della sezione Film del MoMA, o con Annie Cohen-Solal che per Gallimard aveva appena scritto la biografia di Sartre. In un angolo ti accadeva d’incontrare Norberto Bobbio e in un vicolo Eugenio Garin, mentre Gabriele Lavia spendeva mesi al Teatro Signorelli per un Amleto e Memè Perlini rivisitava Aristofane. La lista è lunga e forse parlo solo di un mondo “ex”.
Dal tuo percorso accademico al tuo percorso professionale il tuo processo osservativo ha sempre seguito due binari: quello architettonico-artistico, la creazione e quello filosofico, il pensiero… Quanto l’estetica può determinare lo spirito di un luogo?
Non è possibile separare l’arte dall’architettura e questa dalla natura. Possiamo solo concepire degli ecosistemi che sono indissociabili, come tali, dalla realtà sociale che li vive. Questo nostro territorio ne era un modello esemplare. Mi pare che la sempre maggiore adesione al legame tra modello scientista ed economicista ci abbia condotto a delle contraddizioni irrisolvibili, tanto nel rurale che nell’urbano: lo svuotamento delle campagne, da un lato, e le città-museo dall’altro nascono dalla stessa concezione che nulla ha che fare con l’estetica. È un po' come il nostro corpo che, destinato totalmente al lavoro digitale, per concepire se stesso può diventare soltanto oggetto di fitness. Al contrario ho sempre pensato che l’estetica facesse riferimento a dei soggetti non solo polifonici (collettivi in se stessi) ma che si compenetrano con l’ambiente. Per questo preferisco parlare di “mostre situate”, di “istituzioni situate”.
“Confesso di non avere mai amato la scuola e, per questo, è stato un grande privilegio aprirne una”. I grandi amori non sono mai premeditati?
Credo che questa mia espressione rappresenti bene il rapporto con il passato di cui parlavo. Non si tratta di ritrovare l’origine di qualcuno ma la rivendicazione di ciascuno su un certo passato. Tanto più che l’origine non corrisponde mai all’identità o all’unità ma alla dispersione, all’ibridazione. Il passato è sempre la riserva di un potenziale che non si è interamente compiuto. Anzi sempre sul punto di farsi attuale. Se avevo subito la scuola elementare, il liceo - che pure ho amato - aveva visto momenti di scontro con i professori. L’università infine è stata una delusione. Per questo ho sentito, ad un certo punto, la necessità di aprire una scuola d’arte che in Italia ancora non c’era e che fosse il contraltare delle esperienze che avevo vissuto. Nonostante non riesco quasi più a insegnare perché le altre funzioni sono diventate eccedenti, cerco sempre di trovare un rapporto di complicità con gli studenti che magari mi seguono nelle mostre e nelle conferenze.
Non so se il bello ci salverà ma sono convinto che deve essere di tutti, come la felicità. È il mio mantra. Abbiamo tempo e modo per educare a questo tipo di civismo?
Dico sempre che l’arte non si insegna, ma che si insegna attraverso l’arte. Intendo dire che si tratta di una metodologia. In sostanza è una pedagogia. Lo stesso vale per l’apprendimento. Molti artisti - e di tutto il mondo - con cui ho lavorato negli ultimi venti anni hanno cercato di sviluppare processi partecipativi, hanno decostruito l’idea di museo, hanno fatto agricoltura, si sono fatti etnografi e antropologi, hanno ridiscusso il genere, hanno pensato modelli economici alternativi. Uno dei miei modelli storici di riferimento è stato Joseph Beuys, che nel 1980 era stato invitato anche a Perugia a confrontarsi con Alberto Burri.
In una tua recente intervista delineando un futuro post-pandemico dici due cose che mi hanno colpito molto “La tecnologia non ci salverà” e che “L’arte deve re-incantare il mondo”. Cosa intendevi?
Questa percezione è emersa in maniera forte nel 2018 quando ho curato una biennale in Cina, nel deserto del Gobi, in una delle stazioni della vecchia Via della Seta. Da un lato trovavo cammelli e dall’altro smart cities, città digitalizzate in tutti i servizi. Nello stesso tempo avevo a che fare con la più grande percentuale di minoranza islamica che si possa trovare in Cina. Che cosa può fare l’arte in tale contesto se non inventarsi come scienza nomade? Con cento artisti provenienti da tutto il Sud Est Asiatico e dal Centro Asia abbiamo definito un’area di resistenza ecologica, cercando di recuperare e valorizzare saperi indigeni e pratiche che la Cina sta cancellando definitivamente. Abbiamo lavorato anche sul tempo: contro la iper-accellerazione che caratterizza l’ideologia al potere. Le opere d’arte contemporanea figuravano assieme a relitti di 2000 anni fa o opere del 1700, case contadine e tappeti. Cosa altro può fare un artista se non restituire capacità di azione autonoma e collettiva ai soggetti e alle cose? Se non - come dice Silvia Federici- reincantare il mondo?
L’ultima domanda torna sul periodo cortonese e sulla città. A quali ricordi professionali o intimi sei più legato?
I miei ricordi intimi li ho già consegnati ad un imbalsamatore, come fa la protagonista di un brevissimo romanzo di Yoko Ogawa. Professionalmente invece posso raccontare un episodio imprevisto e imprevedibile che è stato una sorta di battesimo per la mia attività curatoriale. Nel ’94 grazie all’assessorato alla cultura e al gruppo ‘Scambi’ riesco a realizzare una mostra diffusa, in vari luoghi di Cortona. Il titolo “Isole del disordine” era tratto da un grande drammaturgo allievo di Brecht, molto discusso al tempo del crollo della Cortina di Ferro, che dirigeva il Berliner Ensemble. Vista la notorietà internazionale del personaggio - mentre io ero alle prime esperienze - mai mi sarei aspettato di ritrovarmelo a Cortona. Eppure a volte i miracoli accadono. Così vestito di nero, un grande sigaro e il forte accento tedesco, un signore mi ferma in Piazza Signorelli e chiede a me e Valentina dove è possibile vedere l’Annunciazione di Beato Angelico. Heiner Müller in persona. Dopo due giorni dice al pubblico presente all’opening: “Mi sento come una vergine che aspetta un figlio”.