Proseguiamo la pubblicazione degli interventi tenuti alla bella serata della presentazione del libro " I vescovi della diocesi di Cortna ( 1325- 1978 ) di Isabella Bietolini Migliorini svoltasi sabato sette maggio a Cortona , in Palazzo Casali. Ringraziamo il professor Sergio Angori per averci concesso di far conoscere anche ai nostri lettori il testo della sua ricca e profonda relazione.
Relazione Angori
L’anno 1325 è sicuramente una delle date più importanti della storia di Cortona. Segna la nascita della diocesi e l’inizio della signoria dei Casali: due istituzioni che, quantomeno inizialmente, si sosterranno e rafforzeranno a vicenda.
Sono anni difficili per la comunità cortonese, perché segnati dallo scontro tra nobili e popolani, ma sono anche anni nei quali le corporazioni di arti e mestieri risultano molto attive, l’economia è prospera e la Città ha appena trovato, in Margherita, la sua Santa di riferimento.
L’istituzione della diocesi segna soprattutto l’emancipazione di Cortona da Arezzo; è un evento che fa giustizia dei fatti accaduti settanta anni prima, con l’occupazione della città da parte degli armati del vescovo Guglielmino e con l’esilio dei tanti cortonesi – quelli di parte ghibellina – per oltre 2 anni.
Stando a don Angelo Tafi, Cortona, in verità, potrebbe essere stata sede vescovile molto prima, già in epoca paleocristiana, a partire dalla metà del III secolo fino al VI. Ma non ci sono certezze al riguardo.
Quel che è certo è che nel 1325 viene stabilito che la neonata diocesi di Cortona abbia come sua cattedrale la chiesa di San Vincenzo, posta fuori le mura, e già sede – forse – della diocesi paleocristiana , scelta come cattedrale in virtù dalla sua ampiezza, e bellezza e della venerazione del santo martire, cui era dedicata, che continuava a riscontrare tra i fedeli, e cattedrale di Cortona rimarrà fino al 1507.
La residenza vescovile, invece, è da subito posta in prossimità della Pieve di Santa Maria, l’attuale cattedrale, che all’epoca era di dimensioni ridotte rispetto a quelle attuali. Sarà infatti oggetto di un radicale rifacimento a partire da fine Quattrocento e per tutto il Cinquecento
E qui incontriamo il primo vescovo di Cortona sul quale vorrei soffermarmi.
Sono ben 53 i pastori, che nei sette secoli di storia della diocesi, si sono succeduti alla sua guida. Io mi limiterò a proporre qualche rapida annotazione, che ovviamente trova riscontro nel testo di Isabella Bietolini , su quei vescovi che, per carattere, temperamento, indole, ma anche per difficoltà dovute al momento storico che si sono trovati a vivere, hanno fatto fatica a “legare” con i cortonesi, ovviamente, la responsabilità di questo mancato buon rapporto con il loro pastore è in larga misura da attribuirsi ai cortonesi, spesso diffidenti, insofferenti, difficili da accontentare e anche incostanti nei comportamenti. In alcuni casi, salutano infatti con manifestazioni di giubilo l’arrivo del nuovo vescovo, in altri… il fatto che questi decida di arrivare di notte fa sorgere degli interrogativi. In alcuni casi le sue esequie vedono cerimonie solenni con il concorso di tantissimi fedeli, in altri casi sono fatte in fretta e furia senza rendere particolari onori al vescovo defunto.
Sia chiaro, anche i vescovi sui quali dirò qualcosa sono stati, in generale, dei sant’uomini: in moltissimi casi si sono adoperati per il bene delle anime dei cortonesi, hanno cercato di spronare i sacerdoti che da essi dipendevano, sono riusciti ad amministrare più o meno diligentemente i beni della chiesa, ma c’è anche stato chi ha talvolta preso decisioni non condivise dal clero o dai fedeli, chi si è intestardito in certe sue decisioni, chi si è rivelato ombroso, emotivamente instabile, chi a Cortona è stato presente pochissimo: insomma non tutti si si sono fatti amare, benvolere o rimpiangere.
I vescovi cortonesi che, stando agli storici, hanno qualche “debolezza” da farsi perdonare non sono in verità molti e in ogni caso sono loro imputabili piccole colpe, peccati veniali, ma tant’è! in una rassegna, come quella che ci propone Isabella Bietolini, con questa galleria di figure di presuli, molto spesso di grande spessore spirituale, culturale e umano, un cenno pare opportuno farlo anche a chi, tra loro, presenta un profilo un po’ più scialbo, se non altro per sottolineare (questo il compito che mi sono assegnato in questa presentazione) che anche i vescovi, come tutti, possono avere limiti, pregiudizi, possono incontrare difficoltà a organizzare la loro attività, a comunicare, a tenere unito il loro gregge.
Ed allora andiamo con la mente al vescovo in carica alla fine del Quattrocento quando si fece concreta la possibilità che finalmente potesse essere accolta dal pontefice la richiesta sua (del vescovo in carica) e dei suo predecessori di trasferire la cattedrale da San Vincenzo alla Città (dice il Mancini che la cattedrale fuori le mura era ormai divenuta una chiesa “male ubicata, indecente e sordida”). Perché questa operazione potesse andare in porto era però necessario realizzare profondi interventi edilizi sulla Pieve di Santa Maria, ingrandendola previa demolizione di alcune case che la affiancavano, ma soprattutto va tenuto conto che stavano anche per partire i lavori relativi alla costruzione della chiesa del Gesù, antistante la Pieve, voluti dalla Compagnia laicale del Buon Gesù.
Lavori che, ugualmente, richiedevano ingenti mezzi economici, da coprire, in larga misura, con le offerte dei fedeli.
Il vescovo che si trova ad affrontare questi problemi è un “cortonese” , è Mons. Cristoforo de’ Marchesi di Petrella, appartenente ad una famiglia di antichissima nobiltà: i Marchiones. Egli è preposto alla cura della diocesi di Cortona per 25 anni, dal 1477 al 1502.
L’episodio del suo episcopato su cui ci soffermiamo si verifica nel 1485, in occasione della cerimonia di posa della prima pietra di quella che sarà la nuova chiesa del Calcinaio, alla presenza dei responsabili dell’Arte dei Calzolai (tale corporazione era il principale committenti dell’opera), delle autorità civili, delle congregazioni religiose della città e del progettista, l’architetto senese Simone di Giorgio Martini che nell’occasione illustra il modello in legno del tempio che intende realizzare in onore dell’immagine della Madonna che si trovava in prossimità delle vasche destinate alla concia delle pelli. Alla cerimonia, dicevo,– di cui il Cancelliere comunale stende una sorta di verbale – è però assente il Vescovo Petrella, ed è assente anche tutto il Clero secolare, al quale il Vescovo ha espressamente vietato di intervenire alla cerimonia.
Perché? Probabilmente, questa la ragione ripresa da Isabella Bietolini: perché teme che la raccolta di offerte da parte dei fedeli, e all’epoca dovevano essere cospicue, se dirottate sulla costruenda chiesa del Calcinaio, peraltro da edificare in un luogo, impervio, sopra un corso d’acqua, con ingenti spese, non sarebbero andate a beneficio della Pieve di Santa Maria. E quindi, a suo parere, la Corporazione dei calzolai avrebbero fatto bene a rendere omaggio all’immagine della loro Madonna lasciandola dov’era, senza dover necessariamente realizzare quel capolavoro architettonico che è il tempio di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio.
A distanza di un secolo, il clima cambia ed il vescovo Filippo Bardi nel 1604 in questo caso prende parte, con grandissimo concorso di prelati e di popolo, alla solenne consacrazione della Chiesa del Calcinaio; era passato più di un secolo dall’inizio dei lavori!. Tre anni dopo, presiederà la cerimonia per consacrare la nostra Cattedrale a Maria S.S. Assunta. Insomma pace fatta con i cortonesi!
Facciamo un salto di mezzo secolo e a metà del Seicento Papa Alessandro VII chiama il fiorentino Filippo Galilei a ricoprire la sede vescovile cortonese, ma questi non ha nessuna fretta di “prendere possesso” della diocesi. Giunge infatti a Cortona oltre un anno dopo la nomina avvenuta nel 1657. Sembra che il notevole ritardo nel suo arrivo sia stato causato dall’epidemia di peste che all’epoca “serpeggiava” in Toscana e che lo costringe, prima di salire in Città, ad una quarantena di dodici giorni, passata a Terontola, o forse al Riccio, dove stando a don Dario Alunno, ci sarebbe stato uno “spedale” (di San Niccolò) con una stanza anche per i sacerdoti ammalati.
Don Giuseppe Mirri, autore di una storia dei vescovi cortonesi che la Pieroni Francini giudica per certi aspetti “agiografica”, troppo benevola con taluni pastori della diocesi, attribuendo il giudizio sul vescovo Galilei al cronista cortonese Annibale Laparelli, lo descrive “di carattere alquanto subitaneo (fumino) e irriflessivo, per cui talvolta urtò la suscettibilità di molti suoi diocesani”. Certamente entrò in conflitto con Francesco Moneti, un frate francescano del convento cortonese di San Francesco, autore di composizioni poetiche in cui era solito mettere alla berlina illustri personaggi della Curia Papale e dell’alto clero. Per questo era tenuto d’occhio dalle autorità ed era finito rinchiuso nelle segrete di Castel S. Angelo dove era rimasto per oltre 20 mesi. Ma la lezione non gli era servita granché! tanto forte era il suo desiderio di un cristianesimo autentico, libero da compromessi che tutte le occasioni erano buone per denunciare i comportamenti, dei religiosi che, a suo parere, tradivano il Vangelo.
Il vescovo Galilei insofferente per le critiche mossegli dal frate, anche se inizialmente velate e ovviamente anonime (ma il sospettato era inequivocabilmente sempre il Moneti), ad un certo momento trova il modo di fargliela pagare: lo accusa di aver violato una norma sul comportamento dei religiosi, a dir poco singolare, che aveva introdotto lui stesso: era fatto divieto ai religiosi cortonesi di camminare da soli per le vie della città (non sappiamo se solo di notte). Divieto che il Moneti, provocatoriamente o no, infrange e finisce, questa volta, nientemeno che nel carcere ecclesiastico di Corneto di Tarquinia, detto “Pia casa di penitenza” o più sbrigativamente “l’ergastolo”, e ci resta per ben 5 anni, nel corso dei quali ha ampiamente modo di meditare su come rifarsi dei soprusi patiti.
Poco prima di morire, il nostro Vescovo Galilei indisse una solenne Missione nella diocesi. Vista la gran nomea goduta da un padre gesuita della vicina Umbria, pensò bene di chiamarlo a Cortona, affinché con i suoi ammonimenti convertisse i peccatori nostrani e li riportasse sulla retta via.
I cortonesi, stando al Moneti, in effetti anche in chiesa non si comportavano bene
Vanno a sentir la Messa , e i Vespri in Chiesa ,
Con la mente dal Ciel sempre divisa ,
Poco devota , e solamente accesa
D'amor lascivo, e tra le ciarle, e risa
Rimirando or la Nina, ed or la Besa,
Or la Bita, or la Checca , ed or la Lisa;
Voltan, mentre si canta Eleisonne,
Le spalle a Dio per vagheggiar le Donne
L’attività di padre Antonio Maria Petruccioli, chiamato a tenere questa missione a Cortona, è argomento di una sarcastica composizione poetica del Moneti molto nota che è la Cortona convertita. E in questo componimento il nostro frate rende pan per focaccia al vescovo Galilei che l’aveva fatto imprigionare. Naturalmente, questa è la sua versione dei fatti, e non è detto che sia la verità storica.
Così descrive il Vescovo Galilei:
Viveva allora un certo Monsignore,
Che Filippo per nome era chiamato,
Qual sebben di Cortona era Pastore,
Mostravasi però lupo affamato,
Poichè con il rapace suo furore
Ridusse il Clero in sì cattivo stato;
Che si può dir che fece un Galileo
Peggio che Armeni a San Bartolommeo
Il Moneti immagina che prima di iniziare la sua missione il padre gesuita abbia avuto un incontro a quattr’occhi anche con il Vescovo Galilei:
Illustrissimo, sol quattro parole
Dir quì vorrei fra noi, se non vi duole.
Dite pur Padre, egli (il vescovo) rispose allora;
Se vi ho da dire il vero (prosegue il gesuita), i Cittadini
Vi tengon per un uom di poca fede;
I poveretti, artieri e contadini
Dicon, che gli frodate la mercede,
Che avete l’unghie a guisa degli oncini;
E questa gente in somma non vi crede,
Se non quando vi sente bisbigliare
Domine non sum dignus all’Altare.
Dicono che dovunque ognor voi siete,
Dicono ancor che la parola date,
Dicono poi che non la mantenete;
Dicon che da lupo voi trattate,
Dicon che da Pastor far non sapete;
E di più, che voi siete un aguzzino
Che scorticate un uom per un quattrino.
Commedie, poi, festini e mascherate
senza vostra presenza non si fanno,
E per il male esempio che lor date
Bel tempo i vostri Preti anche si danno;
E poi se vanno soli condannate
I Frati alla prigion; e tutti sanno,
Che voi come se foste un secolare
Vi trovate con donne anche a ballare.
Questa non è la strada, o Monsignore,
Questo viver non è da buon Cristiano,
Questo fare non è da buon Pastore,
Questo vostro non è governo umano,
Questo non è ’l servizio del Signore,
Questo non è per voi consiglio sano;
Ma un procacciarsi nel futuro inverno
Un fuoco da scaldarvi in sempiterno.
Chissà se dopo questa ramanzina, il Vescovo Galilei si sarà pentito! Forse non ne ebbe il tempo perché a poca distanza dalla conclusione della Missione svolta dal padre Petruccioli che redigerà una accurata relazione datata 1776 (conservata a Roma nell’archivio dei Gesuiti) il Vescovo Galilei muore (gennaio 1777) e i suoi funerali – anche questa è storia – furono fatti velocemente, senza particolari cerimonie adducendo “motivi igienici”. Isabella Bietolini si chiede: era in corso un’epidemia o si volle trovare una scusa per evitare una cerimonia funebre che poteva andare deserta?
Facciamo ora un altro salto e arriviamo all’ultimo quarto del ‘700 con uno dei vescovi cortonesi più discussi: mons. Gregorio Alessandri. La sua nomina è caldeggiata dal granduca Pietro Leopoldo, proprio perché lo considera manovrabile. Don Giuseppe Mirri cercherà di difenderne l’operato sottolineando la sua ingenuità e buona fede, aggiungendo che si trovò a vivere in tempi difficilissimi: intanto aveva avuto un predecessore straordinario e inimitabile, come mons. Ippoliti, autore della nota lettera parenetica, l’Alessandri poi non seppe o non poté resistere né alle pressioni riformiste della Corte granducale intenzionata a ridurre il potere della Chiesa né alle lusinghe dei vescovi filogiansenisti (il pistoiese Scipione de Ricci, il Pannillini e quello di Colle Valdelsa) fino a dover sopportare negli ultimi anni del suo episcopato le prepotenze e le umiliazioni degli occupanti francesi. Furono anni che videro il clero e i fedeli dividersi tra riformisti e tradizionalisti, tra sostenitori del Vescovo (Bernardino Cecchetti inizialmente è tra questi, così come il Vicario generale Orazio Maccari) mentre tra gli oppositori più fermi ci sono i frati. Dissidi quindi tra religiosi e clero, tra chi vedeva di buon occhio le soppressioni di ordini religiosi e di compagnie laicali e chi osteggiava tali riforme, tra chi voleva le processioni e chi no, chi voleva le immagini sacre scoperte e chi voleva le “tendine”. Mons. Alessandri, dice Isabella Bietolini, finì con lo scontentare tutti, anche se poi ebbe il conforto di funerali solennissimi
Vengo da ultimo ad un vescovo di fine ottocento (1872-1896), Mons. Giovan Battista Laparelli Pitti Baldacchini, cortonese, famiglie nobili sia quella del padre che quella della madre (Pitti), con illustri antenati: Suor Veronica Laparelli e l’architetto Francesco Laparelli, accolto dal popolo con grande entusiasmo - al momento del suo ingresso in Cortona, come pastore della diocesi, la sua carrozza fu trainata a mano, dopo aver staccato i cavalli, in occasione dei funerali il feretro fu portato a spalla per le vie della città, prima di essere tumulato nel Cimitero della Misericordia - ; insomma tantissimi i meriti, certamente un grande vescovo! Ma, un appunto, se pur marginale, credo che possa essergli mosso: non fu capace di respingere la richiesta di trasferimento fattagli da un suo parroco, che aveva subito una prepotenza dall’autorità comunale di Cortona. Il sacerdote in questione è don Francesco Chiericoni, parroco di Tornia e maestro di scuola, autore del “lunario “ La castagna, costretto a dimettersi da maestro e a chiedere anche di lasciare la sua parrocchia a causa del soprintendente alle scuole rurali del Comune di Cortona, nonché consigliere comunale, tale Lorentino Biagini, titolare di una rivendita di tabacchi.
Il Vescovo Laparelli Pitti Baldacchini sceglie (sicuramente con grande sofferenza) di non scontentare l’autorità comunale e accetta che il Chiericoni nel 1876, dopo 22 anni trascorsi a Tornia, curando le anime della sua comunità, insegnando come maestro, parteggiando per i moti risorgimentali, si ritiri – umiliato - in esilio a Vernazzano, nei pressi di Tuoro, anziché prenderne le difese e sostenerlo.
Che cosa era successo? Dopo un’aspra contesa, durata anni, tra il Chiericoni e il Biagini, quest’ultimo aveva fatto pubblicare un opuscolo (e ne aveva anche fatto scrivere il testo, visto che il contenuto non era farina del suo sacco) in cui sono contenute una serie di accuse, peraltro lette anche durante una seduta del Consiglio Comunale, mosse al maestro suo sottoposto: in particolare quella di non essersi sottomesso all’autorità costituita, azione questa sempre riprovevole ma intollerabile se compiuta da un maestro di scuola, per di più sacerdote.
Il Biagini, espressione dell’autorità comunale, rimproverava insomma al maestro sacerdote di essersi preso beffa del suo superiore, di averlo messo alla berlina per il fatto di usare impropriamente gli accenti e l’h nel verbo avere, senza tener conto che in passato anche il vescovo Ugolino Carlini, predecessore del Laparelli Pitti, usava - così argomenta il Biagini - quello stesso modo di accentare e di mettere l’h. Ma, anche il vescovo Carlini, aggiunge il tabaccaio e ispettore Biagini, che pure era “intelligentissimo di cose letterarie”, ahimè! , commise un errore: “sciupò malamente il suo unto nell’impiastricciare il signor Chiericoni in occasione della sua ordinazione sacerdotale”.
E con le “colpe”, si fa per dire, imputabili a questi due vescovi – il Carlini e il Laparelli Pitti - concludo questo intervento in cui ho cercato di mettere in evidenza - spero senza essere stato irrispettoso per la memoria dei presuli cortonesi che ho citato - come un testo che ricostruisce la storia della diocesi in modo puntuale e documentato offra anche elementi curiosi e singolari, aneddoti divertenti, episodi bizzarri che rendono la lettura del Libro di Isabella Bietolini assai interessante e piacevole. Un libro che consente di fare un “ripasso” della storia di Cortona dal 1300 ad oggi, una storia (quella della diocesi) che si intreccia con la vita civile, economica, culturale, artistica di Cortona e che mostra come l’essere stata sede vescovile abbia consentito alla città non solo di fregiarsi di questo titolo ma soprattutto di svolgere un ruolo di rilievo nelle vicende della Toscana che si sono succedute dal Trecento ad oggi.
Sergio Angori