Non è convinzione solo mia che alle diverse fasi della vita corrispondano letture diverse. Dopo la letteratura fantascientifica e apocalittica, o romanzi del mistero e del complotto internazionale, recentemente, quando la realtà ha cominciato a superare la fantasia, mi sono rivolta a vecchie passioni, come riletture di romanzi, perché se i libri sono sempre uguali, non lo siamo più noi che li rileggiamo, o letture di novità assolute. Casualmente mi è capitata sotto gli occhi una storia sorprendente: il romanzo di Spartaco Mencaroni “L’ombra delle rose”, uscito a novembre 2020.
Già nel titolo l’opera sembra alludere ad una visione misteriosa della vita, in cui alle cadute si alternano momenti di rinascita e di rinnovamento. È un romanzo storico, ambientato a metà del XIV secolo, e precisamente tra il 1346 e il 1352, intorno al Mar Nero, nelle città di Costantinopoli-Bisanzio, Trebisonda e all’interno dell’Asia fino a Tblisi e Astrakan.
I luoghi sono quelli in cui si scontrano gli eserciti dell’Impero Romano d’Oriente da una parte e del Khan dall’altra.
I tempi sono quelli incerti e neri della fine di Bisanzio, la cui agonia fra tradimenti e intrighi durerà ancora per un centinaio d’anni fino al 1453, quando la capitale dell’Impero verrà conquistata dai Turchi.
In questo mondo dai confini non chiaramente definiti si muovono, spinti dal desiderio di guadagno, e ancora di più dallo spirito d’avventura, due mercanti: il genovese Marco, protagonista anche della storia d’amore con la nobildonna bizantina Teodosia Bolani, e il fiorentino Duccio, suo fedele amico.
Coprotagonisti molti personaggi che i due incontrano nel loro viaggio dal Bosforo verso l’interno: il tataro Burqan, misterioso guerriero, disertore dell’esercito mongolo dell’Orda d’Oro, che solo alla fine, salvando dalla morte i protagonisti, riuscirà a salvare anche se stesso e a riconquistare il suo onore; l’armaiolo armeno Erdon e il servo Vania, suo apprendista.
Fa da sfondo un crogiolo di etnie, che coesistono con molte difficoltà in mezzo a tranelli, agguati, assassinii in un mondo dove la vita e la morte sono legate ad un filo sottile, al caso, ad un colpo di fortuna o di malasorte.
La qualità migliore del romanzo è la capacità immediata di immergere il lettore in un passato lontano e per tanti aspetti sconosciuto, e per questo affascinante, in cui, tuttavia, il tempo trascorso si unisce alla sensazione, che a tratti diventa consapevolezza, che le coordinate della narrazione siano rimaste sempre le stesse e arrivino fino ad oggi: la curiosità che alimenta lo spirito d’avventura, l’amore, l’amicizia e la lealtà da una parte, il tradimento, l’invidia e la violenza, l’avidità e l’odio, la guerra dall’altra. Su tutto domina la natura, suggestiva e selvaggia, in gran parte sconosciuta: la natura delle vette incontaminate e delle sconfinate pianure dell’Asia, regno delle popolazioni nomadi.
“La gioia dell’uomo sta nei grandi spazi vuoti”. Questa frase appare citata all’inizio del capitolo che vede protagonista il nomade Burqan, il personaggio più romantico e affascinante del romanzo, la cui esistenza è ben sintetizzata da queste parole, che ce lo svelano in parte nell’accenno, che qui diventa più esplicito, al suo passato di guerriero valoroso e ingiustamente accusato, ma che si riscatta dall’accusa di tradimento e di furto, salvando prima la vita di un uomo della carovana, di cui è entrato a far parte come guardia, e poi quella di Marco e Teodosia.
Ancora a Burqan è legato il primo indizio di una morte “insolita” che colpisce quelle regioni. Già il secondo capitolo si apre con una suggestiva descrizione della fuga precipitosa del cavaliere nomade nella steppa, in cui ai campi lunghi della “macchina da presa” si alternano primi piani, come in un film, a cui spesso ricorre l’autore, insieme alla tecnica della dissolvenza.
Durante questa cavalcata, il fuggitivo incontra un piccolo accampamento: un focolare in cui arde ancora della legna, una tenda e un silenzio irreale. Poi due corpi immobili e un odore inconfondibile portato da una folata di vento e una visione che un fulmine improvviso illumina nella notte: animali e uomini, ridotti a carcasse e l’odore dei morti. Burqan in lacrime fugge al galoppo, lontano da quello spirito, da quel soffio di morte.
D’ora in poi il mistero più fitto avvolge questo male, come se anche il solo parlarne potesse in qualche modo renderlo ancora più ineluttabile. Lo stesso autore si schermisce e parla di uno “spirito cattivo” che prende l’anima di uomini “maledetti”, e chi li guarda negli occhi muore anche lui.
Per gran parte del romanzo soltanto indizi, anche se sempre più precisi, alludono alla morte provocata da un contagio, come il fatto che degli uomini morti fossero gettati vestiti nelle acque del fiume: “non si sprecano indumenti buttandoli in acqua insieme ad un cadavere”. La peste che, innominata, percorre tanti capitoli, celandosi sotto varie forme, “spirito malefico”, “miasma”, “vento di morte”, alla fine appare in tutta la sua realtà producendo un imbarbarimento dei rapporti umani e del senso stesso del sacro con lo sciacallaggio da una parte, la tragica impotenza degli uomini e le processioni dei flagellanti dall’altra. Il timore del contagio determina la perdita di ogni sentimento di umanità, dissolvendo e annullando i legami più stretti, provocando un sovvertimento dell’ordine sociale ed un allentamento dei legami tra individui anche all’interno della stessa famiglia.
Immagini potenti nel romanzo sono quelle che descrivono quei morti ammassati sopra carri e gettati nelle fosse comuni: terribile rituale che si pensava relegato nel passato lontano, racchiuso in pagine letterarie che suscitavano pietà e pianto, come in Boccaccio, Manzoni, Camus, ma che rimanevano, appunto, segregate nel passato, almeno fino ad oggi.
Nel romanzo la speranza di salvezza si identifica con la tenuta della Rosa Ombrosa, dove, sfuggendo alla peste, si rifugiano i protagonisti, creando una grande e bella famiglia, allietata dalla presenza del piccolo Gianrico, il figlio di Teodosia e Marco, che ricorda nel nome il servo dello stesso protagonista, e dall’attesa del piccolo di Teresa e Burqan.
La scena finale vede Gianrico sfogliare i petali di una rosa posata sopra la tomba dell’armaiolo Erdon: la vita e la morte si uniscono e il cerchio si chiude.
Fiorella Casucci