L’Etruria

Redazione |

Covid19- Una storia come tante, una storia speciale

Covid19- Una storia come tante, una storia speciale

Chiudiamo il 2020 con un’altra intervista, un altro incontro. Abbiamo spaziato dall’arte allo sport, dalla politica al cinema, dall’università alla cultura con un denominatore comune: Cortona.

Andrea Pecora è un mio amico, un mio collega. Abita a Camucia. La sua storia è diversa dalle altre. La sua storia è una delle tante di questo anno che salutiamo volentieri.

Parte così…

“A me non viene, io sto attento, metto sempre la mascherina, mi lavo le mani, uso il disinfettante e sto sempre a distanza da tutti…”

E invece…

E invece in un attimo mi ci sono trovato dentro, prima la febbre, poi il respiro affannato, le forze che se ne vanno e l’inferno dell’ospedale. Purtroppo, mi rendo conto che di questa malattia, il covid, ne può avere piena coscienza solo chi la vive dentro un ospedale, come paziente o come personale ospedaliero.

È successo tutto velocemente da sano a malato a contagiato a dentro un girone dantesco… Cosa ti passava per la testa?

Mi sono trovato dentro a quello che avevo visto solo nei telegiornali, indossavo un casco a ossigeno e vedevo accanto persone purtroppo più sfortunate di me. Persone che cercavano di respirare ma che non riuscivano a far entrare aria nei polmoni. Le mie sicurezze via via si sgretolavano, anche io potevo peggiorare. Cercavo solo di pensare che ce la dovevo fare, dovevo continuare a respirare.

Quando hai avuto paura, quando invece hai detto… L’ho scampata…

Ho avuto due momenti di paura: il primo quando mi hanno messo il casco a ossigeno, lì ho pensato: “Allora sto veramente male”. Il secondo qualche giorno dopo essere uscito dalla terapia sub-intensiva: ero in reparto di degenza, all’improvviso mi è tornata la febbre alta, l’ossigenazione del mio sangue andava peggiorando e se si fosse ancora aggravata sarei dovuto tornare in sub-intensiva e rientrare nell’inferno del casco. Tutto per colpa di un batterio che mi aveva procurato un’infezione al sangue. Per fortuna, dopo qualche giorno di antibiotico si è risolto tutto, l’ossigenazione è migliorata e ho potuto mantenere la maschera a ossigeno.

Quando ho detto l’ho scampata? Ero sul letto, vedo correre verso di me l’infermiera che la mattina mi aveva fatto l’emogas, l’emogas è un prelievo di sangue fatto per verificare la funzionalità polmonare, mi strappa la maschera a ossigeno dal viso e mi dice “Di questa non ne hai più bisogno ce l’hai fatta”. L’ho scampata non l’ho mai detto, ho fatto solo in tempo a dire grazie perché poi ho pianto.

Hai avuto anche un compagno di viaggio: con il tuo vicino di letto non potevate parlare eppure so che avevi un modo tutto vostro di comunicare…

Era nato uno strano cameratismo tra di noi, sconosciuti compagni, che indossavamo il casco a ossigeno. Con il casco si è isolati da tutto, dentro si sente solo un gran rumore provocato dall’aria che entra ed esce, è inutile parlare perché gli altri che lo indossano non sentirebbero. La mattina ci davamo il buongiorno salutandoci a gesti come si salutano due persone che si incontrano ai lati opposti di una piazza, alzavamo il pollice della mano per dire va tutto bene e facevamo il gesto con il pugno per dire all’altro dai non mollare!

Mi hai confessato quanto fosse importante l’umanità del personale ospedaliero. Cosa ti ha colpito in particolare?

Per le protezioni che sono costretti ad indossare di loro vedevo solo gli occhi che, anche nell’emergenza, erano sempre sorridenti e poi la loro assoluta disponibilità, nei nostri momenti di abbattimento c’era sempre da parte loro una parola o un gesto di conforto. Più di una volta, stringendomi le mani tra le loro, mi hanno detto “Non ti preoccupare ci siamo qui noi”. Persone meravigliose che purtroppo non potrò mai ringraziare abbastanza, perché anche incontrandole non le riconoscerei.

La tua vicenda personale non è solo una testimonianza intima personale, è un insegnamento…

Mi sentivo quasi invulnerabile perché ero attento a tutto e a tutti, ma purtroppo non è sufficiente. Dobbiamo avere “rispetto” per questa malattia, perché il contagio di noi stessi potrebbe diventare causa della sofferenza di altre persone.

Grazie Andrea per queste parole, per aver donato un racconto così tuo intimo a me, ai lettori: le lacrime, la commozione, la paura, la fratellanza nel dolore… Non è una storia di Natale, è la storia degli uomini e di un nemico invisibile, crudele, che non nomina mai per nome, lo faccio io: Coronavirus. È entrato nelle nostre vite in modo subdolo per ricordarci di quanto siamo fragili e quanto abbiamo bisogno degli altri, di un gesto, di un sorriso.

Andrea è un mio amico, un mio collega, la sua è una storia come tante, la sua è una storia speciale.

Sono convinto che la scienza vincerà il Coronavirus; l’umanità ritrovata nel dolore non ha bisogno di vaccini o coprifuoco: ha bisogno di noi, nessuno escluso.

 

Albano Ricci