Pubblichiamo anche oggi molto volentieri le riflessioni del diario di Anna Cherubini. E facciamo tesoro del suo “ buon settimo sabato strano”. Grazie Anna! (IC)
Diario del SETTIMO SABATO
Dicevamo, la prima volta, sarà un sabato strano, senza un caffè al bar, una serata tra amici, un' uscitina qualsiasi. Gli stati d'animo che si alternavano tra l'angoscia per quello che stava succedendo al nord ma anche una forma strana di autoesaltazione che secondo me viene fuori quando l'angoscia è collettiva. Una specie di gara tra chi si adatta meglio alla situazione nuova e disagevole e chi invece no. Una gara tra chi ricorda meglio le battute dei nonni riguardo alla guerra e chi non ne sa nulla, poveretto. Tra chi tira fuori maggior filosofia e chi maggiori idee pratiche. Guardavamo con una certa superiorità i lamentosi. Era solo il primo sabato di chiusura, una settimanella così e tornavamo alla normalità.
Non c'entrava un emerito nulla, ma mi veniva in mente, all'inizio, una di quelle situazioni che vivevamo a vent'anni quando con gli amici di allora, alcuni spariti e altri rimasti, facevamo volutamente le vacanze scomode, perché ci sembrava così di dare più senso di magia ai momenti. Forse perché sapevano che la scomodità un giorno ce la saremmo ricordati meglio della comodità e allora via, solo posti in piedi e puzza di sudore, ci godevamo tutta. Salivamo su treni regionali fino a Brindisi, zaini pesantissimi sulle spalle (i trolley esistevano già, ma sembravano così borghesi!), poi perdevamo regolarmente l'autobus per il porto e facevamo un autostop di fortuna. Acchiappavamo al volo la prima nave per Patrasso, ovviamente senza alcuna prenotazione, posto ponte, forse un sacco a pelo, spazzolini da denti dimenticati e quindi a turno quello dell'amica, e il vento ci portava via, così tanto da non poterci stare, ma noi ci stavamo lo stesso. E dopo 56 ore, una volta scesi, i pullman di fortuna, gli autostop, altre navi che all'epoca andavano alla velocità di barche a remi, a volte anche situazioni di pericolo volute, tipo dormire dal primo che ci ospitava che magari aveva una faccia... Ma la sfida era tra chi in quei momenti tirava fuori la battuta più scema e si mostrava più leggero.
Ricordi affiorati spesso in questi sabati mattina, i primi senza caffè alla Saletta, quel lusso del fine settimana con Robinson davanti e un cornetto tra i secondi più buoni del mondo, (perché i primi sono a Roma, in un posto che si chiama Vero). Ma ora torno alla realtà. I viaggi da ragazzi, i ricordi di allora, per quanto mi riguarda si sono trascinati in residui di adolescenza portata avanti negli anni, finora. E ora? Finiti? Boh. Intanto, settimo sabato così.
Nei primi giorni di questa fantascienza reale, erano davvero molto rari i momenti in cui riuscivamo a staccarci dal telegiornale, almeno io, e a cercare la normalità. Non era possibile dopo aver visto quelle scene. Quelle che sappiamo, le terapie intensive con i volti sfocati dalla telecamera ma i tubi attorno, la paura, messi a fuochissimo. Così come i sanitari con addosso tutto quel carico di protezione e di tanto, tanto altro.
Oggi, dopo sette settimane, anche i telegiornali ci raggiungono con meno enfasi. Quel "ta ta taaa, ta ta taaaa, ta, tatatatataaaa...taaaaa!!!" del tg1, rimasto uguale dagli anni Settanta, fa meno effetto. Come succede in tutte le cose ci siamo anche un po' abituati, possibile? No. Ci sembra, ma non è. Forse il corpo, le sensazioni, sembra che si abituino, ma il dolore, la paura, tornano fuori in altri modi. I medici mi correggano: lo stato d'animo addolorato, o impaurito, quando ti abitui a sentirlo e pensi che non ti faccia più effetto, invece ti cerca ancora e sbuca fuori da altre parti. Io ieri credevo di essermi finalmente come acclimatata al gelo all'angoscia che abbiamo provato per circa sette settimane. Invece l'angoscia dei giorni trascorsi fino a qui m'è venuta ha fatto capolino con attacchi di emicranie con tanto di aure. Come me chissà quanti.
Che poi personalmente mi sento una privilegiata perché io a casa ci sto sempre e meno male che da pochi mesi l'ho cambiata venendo a stare in una casa più grande e confortevole, con terrazzino e scalino libero su cui sedermi a leggere un libro. Sarei stata molto insofferente dove stavo prima, nella torretta scrostata con 3000 scalini da salire ma 55 metri senza balcone in cui muovermi. Eppure, era un lusso anche quello rispetto a case in cui tanta gente sta. E ci penso sempre, alle case della gente. Ci penso nei momenti normali e ora di più. Penso ai condomini difficili, ai climi cupi dei disaccordi coniugali. Alle case un po' anguste, con poca luce e pochi metri quadri, e alle famiglie di 5 o 6 persone che ci abitano, innervosite dal lavoro perso e altro. Perché alla fine, l'angoscia, anzi, direi il male, non si accontenta delle terapie intensive. Certe case, mi fanno paura. Ma di violenze domestiche non qui, è una cosa troppo grossa.
Volevo scrivere un post mezzo allegro. E invece...
Ennesimo sabato così, ma poi, risaliamo di tono. Di cose belle che ne sono. Se non altro questa sensazione che spero continuiamo ad avere di stare sul pezzo, in questa specie di gara di adattamento. Io credo che, senza voler strafare, sarà bene continuare a tirare fuori battute leggere tra di noi, filosofie nostre riesumate dal manuale dell'adattamento che un tempo ci siamo scritti addosso. O forse lo abbiamo scritto di recente. Boh. Metto questa foto di ieri perché mi ero appena spuntata i capelli da sola, notando che anche il biondo fatto in casa miracolosamente resiste. Buon settimo sabato.
Anna Cherubini