L’Etruria

Redazione

ARTE COME CURA, FRANCO VILLORESI E L’ATELIER DI PITTURA NEL MANICOMIO DI AREZZO

ARTE COME CURA, FRANCO VILLORESI E L’ATELIER DI PITTURA NEL MANICOMIO DI AREZZO

Preceduta da una opportuna presentazione nel pomeriggio del 12, inizierà il giorno dopo, 13 settembre, nel palazzo della Provincia di Arezzo, in piazza della Libertà n° 3, la mostra, “Arte ai margini - Livio Poggesi e l’atelier di pittura dell’ospedale neuropsichiatrico di Arezzo 1958-1978”, per la cura di Luca Quattrocchi e Paolo Torriti, che resterà aperta, con ingresso libero, fino al 27 ottobre (solo dal giovedì alla domenica), in orario 11-18. Livio Poggesi fu ricoverato a lungo e in diversi periodi nel manicomio di Arezzo e fu uno degli allievi più dotati e creativi di Franco Villoresi, un grande pittore del Novecento, inspiegabilmente sottovalutato e poco conosciuto anche nella nostra terra che fu anche la sua, d’elezione, per molti anni. Nato a Città di Castello il 9 settembre 1920, partigiano che agì fra la Toscana e il Veneto, mostrò una vocazione per la pittura fin dall’infanzia. Prima e dopo la guerra visse a Roma, crebbe artisticamente sotto la guida di Mario Mafai, il fondatore della cosiddetta “Scuola di via Cavour”, e strinse un sodalizio artistico con Giovanni Omiccioli. Negli anni Cinquanta lascia Roma, e giunge a Rigutino. Perché? Come dice il figlio Gianni: fra varie possibilità fu quella che preferì. Ristruttura una vecchia casa in località Sassaia dove, nel corso degli anni gli faranno visita i più importanti pittori italiani del secolo scorso. Muore il 29 settembre 1975. È sepolto nel cimitero di Rigutino. La sua arte ha attraversato vari periodi ma il più noto è quello delle periferie nebbiose, con uomini intabarrati che percorrono spazi anonimi, donne con bei cappelli misteriose e inafferrabili, stazioni sperdute, fanali di locomotive che illuminano binari vuoti, caligini e polvere di pioggia. Silenzio. La sua pittura dice molto ma in un rigoroso silenzio, vigono nei suoi spazi infrazioni al comune ordine delle cose e si generano sinestesie, che, a loro volta, producono straniamento e una processione ininterrotta di visioni oniriche. Evocazioni: dentro i quadri di Villoresi c’è profonda evocazione, anche quando traspare una palese critica sociale e sdegno civico non manca mai una poeticità latente che affascina l’osservatore. A questo artista così potente il vicedirettore del manicomio di Arezzo, Furio Martini, nel 1958 affida il compito di creare un atelier di pittura per i ricoverati. Villoresi terrà lezione per quasi 20 anni e Poggesi sarà il suo allievo migliore. Le opere di Poggesi che ordinariamente sono visibili nelle sale dell’università che ha sostituito il manicomio, e che quindi sono sempre rimaste nello stesso posto, migrano ora nel palazzo della Provincia perché questa istituzione, insieme con il direttore Agostino Pirella, fu l’artefice della chiusura del manicomio di Arezzo. Le istituzioni agiscono tramite le persone che le rappresentano e in Provincia fu l’assessore alla sanità Bruno Benigni, un uomo di grande dirittura morale, a portare a compimento questa opera di civiltà.

Nella sua scuola di pittura, Villoresi probabilmente sottrasse gli allievi del manicomio al puro sfogo di pulsioni e al semplice dilettantismo, fornì una tecnica più educata e una grammatica delle emozioni che fu loro di aiuto nel reinserimento che i seguaci di Basaglia già tentavano prima della legge del 1978, detta, non a caso, Basaglia. Egli fece intendere a quelle persone la pittura come uno strumento per esprimere ciò che sfugge alle parole. Trasformò l’arte in una cura che non dice di esserlo, e in una intermediaria fra malato e terapeuta.

D’altronde, il rapporto fra patologia e arte è noto, da Caravaggio a Van Gogh e a Ligabue sono molti i pittori che hanno trovato nell’arte il medicamento, pure imperfetto, delle loro ferite, l’olio da spargere sui loro mari interiori in tempesta. Insuperabili, in questo senso, i graffiti del manicomio di Volterra incisi in lunghi anni di internamento, che hanno dato voce e respiro a una povera, geniale anima reclusa.

Doverosamente, al termine della mostra, è stato ricavato un piccolo spazio dove onorare il maestro Villoresi. Poche opere possedute dal figlio e scelte e prestate per illustrare il percorso artistico e il valore della sua opera dentro la storia dell’arte italiana del secondo Novecento.